Un’introduzione alla vita e agli insegnamenti di Ajahn Chah
di Ajahn Amaro
Ajahn Chah
Ajahn Chah nacque in una famiglia grande ed agiata, in un villaggio della Thailandia nord-orientale. Dietro sua stessa iniziativa, alla tenera età di nove anni scelse di lasciare la casa paterna ed andò a vivere nel monastero del luogo. Fu ordinato novizio e, sentendo il richiamo della vita religiosa, a vent’anni ricevette l’ordinazione completa. In quanto giovane bhikkhu, studiò i fondamenti del Dhamma, la disciplina e altre scritture.
In seguito, insoddisfatto del rilassato standard di vita nel tempio del suo villaggio e desiderando di essere guidato nella meditazione, abbandonò questi luoghi piuttosto sicuri e intraprese la vita del bhikkhu errante (tudong). Cercò vari maestri locali di meditazione e praticò sotto la loro guida. Peregrinò per un certo numero di anni come fanno i bhikkhu asceti, dormendo in foreste, caverne e luoghi di cremazione, e trascorse un breve ma illuminate periodo con lo stesso Ajahn Mun. Questa è la descrizione di quell’incontro altamente significativo, tratta dall’ancora inedita biografia di Luang Por Chah, Uppalamani – un gioco di parole, che significa sia “Il gioiello della provincia di Ubon” sia “Il gioiello nel loto” – scritta da Phra Ong Neung.
Alla fine del ritiro delle pioggie, insieme ad altri tre monaci, un novizio e due laici, Ajahn Chah si incamminò per tornare nell’Isan, il nord-est della Thailandia. Interruppero il viaggio a Bahn Gor e, dopo pochi giorni di riposo, iniziò la lunga escursione di 250 chilometri verso nord. Il decimo giorno raggiunsero l’elegante stūpa bianco di That Panom, un antico luogo di pellegrinaggio sulle rive del Mekong, e prestarono omaggio alle reliquie del Buddha lì custodite. Continuarono il loro itinerario per tappe, cercando monasteri della foresta ubicati lungo il cammino, nei quali trascorrere la notte. Anche così era un viaggio arduo, e il novizio e un laico chiesero di tornare indietro. Quando finalmente arrivarono al Wat Peu Nong Nahny, ove dimorava il Venerabile Ajahn Mun, il gruppo consisteva di soli tre monaci e di un laico.
Quando entrarono nel monastero, Ajahn Chah fu immediatamente colpito dall’atmosfera serena e appartata. L’area centrale, nella quale si trovava una piccola sālā, un luogo di ritrovo in legno, era perfettamente ramazzata, immacolata, e i pochi monaci che furono in grado di vedere erano silenziosamente intenti a svolgere, con grazia misurata e composta, le loro faccende quotidiane. C’era un qualcosa nel monastero che lo rendeva diverso da tutti gli altri nei quali era stato prima di allora: il silenzio era stranamente denso e vibrante. Ajahn Chah e i suoi compagni furono accolti educatamente e, dopo essere stati informati su dove avrebbero dovuto lasciare i loro glot – dei larghi ombrelli cui si appende la rete contro le zanzare – fecero un bagno di benvenuto per ripulirsi dalla sporcizia del viaggio.
Verso sera, i tre giovani monaci, con il sanghāti* ordinatamente ripiegato sulla loro spalla sinistra e con il cuore che oscillava tra appassionata attesa e freddo timore, si incamminarono verso la sālā per rendere omaggio ad Ajahn Mun. Avanzando lentamente sulle ginocchia verso il grande maestro, affiancato da entrambi i lati dai bhikkhu del monastero, Ajahn Chah avvicinò una figura anziana ed esile, di presenza invincibilmente adamantina. È facile immaginare gli occhi senza fondo di Ajahn Mun, mentre con il suo sguardo penetrante forava Ajahn Chah, prostratosi per tre volte e poi sedutosi più in basso a conveniente distanza. La maggior parte dei monaci era seduta in meditazione, ad occhi chiusi; uno sedeva dietro Ajahn Mun, a poca distanza, e con un ventaglio allontanava dolcemente da lui le zanzare della sera.
Alzando lo sguardo, Ajahn Chah notò sia la clavicola di Ajahn Mun, che prominente al di sopra dell’abito sporgeva attraverso il pallido incarnato, sia le sue labbra sottili che, tinte di rosso dal succo di betel, erano in forte contrasto con la strana luminosità della sua presenza. Seguendo un’usanza da tempo onorata tra i monaci buddhisti, inizialmente Ajahn Mun chiese ai visitatori da quanto tempo indossavano l’abito monastico, in quale tempio avevano praticato ed i particolari del loro viaggio. Avevano dubbi in relazione alla pratica? Ajahn Chah deglutì. Si, lui ne aveva. Aveva cominciato a studiare i testi del Vinaya con grande entusiasmo, ma poi si era scoraggiato. La disciplina sembrava troppo minuziosa per essere concreta; non pareva possibile osservare ogni singola regola. Quale criterio seguire?
Quale principio basilare, Ajahn Mun consigliò Ajahn Chah di avvalersi dei “Due Guardiani del Mondo”, hiri e ottāpa, il senso di vergogna e l’intelligente timore delle conseguenze. In presenza di queste due virtù, tutto il resto sarebbe venuto da sé. Poi, con gli occhi socchiusi, cominciò a parlare del triplice addestramento di sīla, samādhi e pannā, delle Quattro Basi per il Successo e dei Cinque Poteri Spirituali**, mentre man mano che procedeva la sua voce diveniva più potente e veloce, come se stesse ingranando marce sempre più alte. Con autorità assoluta, descrisse «il modo in cui le cose sono secondo verità» e il Sentiero verso la Liberazione. Ajahn Chah ed i suoi compagni sedevano, completamente rapiti. In seguito, Ajahn Chah disse che, sebbene fosse esausto per la giornata trascorsa in viaggio, ascoltando il discorso di Dhamma di Ajahn Mun la stanchezza scomparve e la mente gli divenne serena e chiara, e sentì come se stesse fluttuando in aria, al di sopra del luogo in cui sedeva. Era notte tarda quando Ajahn Mun disse che l’incontro era finito e Ajahn Chah tornò, ardente, sotto il suo glot.
La seconda notte Ajahn Mun diede altri insegnamenti, ed Ajahn Chah percepì che i suoi dubbi sulla pratica erano giunti al termine. Provava una gioia e un rapimento nel Dhamma mai sentiti in precedenza. Ora, doveva solo mettere in pratica quanto sapeva. Infatti, uno degli insegnamenti di quelle due sere che lo aveva maggiormente ispirato era stata l’ingiunzione a rendersi sītibhūto, ossia testimone della verità. Però, la spiegazione più chiarificatrice, quella che gli fornì il necessario contesto, e un fondamento per la pratica che gli era fino a quel momento mancato, fu la distinzione tra la mente stessa e gli stati transitori della mente che, all’interno di essa, sorgono e scompaiono.
«Tan Ajahn Mun disse che sono semplici stati. Se non si capisce questo, li prendiamo per reali, per la mente stessa. Non appena egli lo disse, le cose divennero improvvisamente chiare. Supponiamo che nella mente sia presente la felicità; è una cosa diversa dalla mente stessa, è ad un livello differente. Se lo vedi, allora puoi fermare le cose, puoi posarle. Quando le realtà convenzionali sono viste per quello che sono, questa è la verità ultima. La maggior parte delle persone mette tutto insieme come se si trattasse della mente stessa, ma in realtà sono stati della mente assieme con la conoscenza di essi. Se si comprende questo, allora non rimane molto da fare».
Il terzo giorno Ajahn Chah rese omaggio a Luang Por Mun e condusse di nuovo il suo piccolo gruppo nella solitaria foresta di Poopahn. Si lasciò alle spalle Nong Peu e non vi sarebbe più tornato, ma il suo cuore era pieno di un’ispirazione che sarebbe rimasta con lui per il resto dei suoi giorni.
Nel 1954, dopo numerosi anni di spostamenti e di pratica, fu invitato a stabilirsi nella fitta foresta nei pressi del suo villaggio natale, Bahn Gor. Era un bosco disabitato, noto come luogo di cobra, tigri e fantasmi, e per questo – diceva – il posto perfetto per un bhikkhu della foresta. Allorché un numero sempre maggiore di bhikkhu, monache e laici giunse ad ascoltare i suoi insegnamenti e si fermò per praticare con Ajahn Chah, attorno a lui si costituì un grande monastero. Ora vi sono discepoli che praticano meditazione ed insegnano in più di 300 monasteri affiliati nelle montagne e nelle foreste di tutta la Thailandia e d’Occidente.
Benché Ajahn Chah sia morto nel 1992, l’addestramento da lui deciso è ancora praticato al Wat Pah Pong e nei monasteri affiliati. Di norma, la meditazione di gruppo è praticata due volte al giorno e talvolta l’insegnante più anziano tiene un discorso, ma il cuore della meditazione sta nel modo di vita. I monaci svolgono lavoro manuale, tingono e cuciono i loro abiti, si occupano personalmente dei beni strettamente necessari, e mantengono immacolati gli edifici e il suolo del monastero. Vivono in modo estremamente semplice, osservano i precetti ascetici, mangiando una volta al giorno dalla ciotola per l’elemosina e limitando i loro possessi ed abiti. Ciascun bhikkhu ed ogni monaca vive e medita in solitudine in singole capanne sparpagliate per tutta la foresta, nei pressi delle quali pratica la meditazione camminata su sentieri puliti sotto gli alberi.
In alcuni monasteri occidentali, e in pochi di quelli thailandesi, l’ubicazione del centro monastico comporta talune piccole variazioni: ad esempio, il monastero in Svizzera si trova in un ex albergo di legno, ai margini di un villaggio di montagna. A parte queste differenze, il tono ovviamente dominante è dato dallo stesso esatto spirito di semplicità, calma e scrupolosità. La disciplina è osservata rigorosamente, consentendo ad ognuno di condurre una vita semplice e pura in una comunità regolata armoniosamente, nella quale virtù, meditazione e comprensione possano essere abilmente e continuamente coltivate.
Assieme all’esperienza monastica vissuta entro i limiti di località prefissate, la pratica del tudong – errare a piedi, nelle campagne, in pellegrinaggio o alla ricerca di posti tranquilli per ritiri solitari – è ancora considerata un esercizio spirituale di centrale importanza. Sebbene le foreste stiano rapidamente scomparendo in tutta la Thailandia, e le tigri con le altre creature selvagge che spesso si incontravano nei tudong del passato siano diminuite al punto da essere quasi estinte, è ancora possibile continuare questo modo di vita e di pratica.
Infatti, questa pratica è stata non solo conservata da Ajahn Chah, dai suoi discepoli e da molti altri monaci della foresta in Thailandia. È sostenuta anche dai suoi monaci e dalle sue monache in molti paesi d’Occidente e in India. In tutte queste situazioni il rigoroso standard di condotta è ancora osservato: vivere unicamente dell’elemosina liberamente offerta dalla gente del posto, mangiare solo tra l’alba e mezzogiorno, non portare con sé e non usare denaro, dormire ovunque vi sia un ricovero. La saggezza è un modo di vivere e di essere, e Ajahn Chah si applicò a preservare uno stile di vita monastica semplice in tutte le sue dimensioni, in modo che oggi le persone possano studiare e praticare il Dhamma.
Note
* La veste esterna a doppio strato che costituisce, assieme alla veste superiore e inferiore, un abito completo da monaco. Generalmente viene portata ripiegata lungo la spalla sinistra in situazioni cerimoniali.
** In pāli rispettivamente iddhipāda e bala.
INDICE
- Ajahn Chah
- Le cose essenziali: visione, insegnamento e pratica
- Le Quattro Nobili Verità
- La legge del Kamma
- Tutto è incerto
- Scelta espressiva: “si” o “no”
- L’enfasi sulla Retta Visione e sulla Virtù
- Metodi di addestramento
- Insegnare ai laici, insegnare ai monaci
- Contrastare la superstizione
- Umorismo