Domanda: Cosa ti ha maggiormente colpito di Luang Por Chah? Potresti portarci un esempio dalla tua esperienza personale?
Risposta: La mia esperienza con lui è davvero limitata, avendolo visto una sola volta prima che si ammalasse gravemente, quando ancora poteva camminare, parlare e compiere normalmente le sue attività. Quando studiavo in Scozia, fu invitato a visitare Edimburgo accompagnato da Ajahn Sumedho e Ajahn Pabhakaro. Arrivò di sera, restò per una notte e se ne andò il giorno seguente, ma per l’occasione tenne un incontro con alcuni di noi. Non offrì un discorso, solo domande e risposte. Non ricordo cosa disse, ma lasciò un’impronta. Lo ricordo come una persona interamente a suo agio e completamente normale, in un certo senso. Non c’era niente di eccezionale, era solo qualcuno che si trovava esattamente là dov’era. Nessun tipo di finzione o commedia: era solo così com’era.
Si trattò di un rapido incontro: una breve meditazione e, a seguire, rispose a delle domande. Lo vidi soltanto per un’ora circa. Ero ancora abbastanza nuovo alla pratica e al buddhismo. Prima d’allora avevo conosciuto solo Ajahn Sumedho, così mi sembrò una cosa molto importante e fortunata poter incontrare anche il suo maestro. Ero davvero in soggezione; sapete… “Ajahn Chah!”.
Stavamo aspettando che arrivassero e capitò che mi trovassi proprio nel corridoio quando passò. Mi ricordo che mi sentii abbastanza intimidito e imbarazzato, non sapevo come comportarmi. Allora semplicemente alzai le mani in añjali quando mi fu accanto: era davvero basso, camminava con un bastone. Si fermò, mi guardò e quindi andò avanti.
Domanda: Ti ricordi che anno era?
Risposta: Doveva essere il 1979. Lo rammento seduto su una sedia mentre si guarda attorno, picchiettando gli oggetti col suo bastone. Percepii gentilezza, una buona sensazione dovuta al solo fatto di essere in sua presenza. È accaduto molto tempo fa, e per poco tempo, ma è ancora impressa in me quella sensazione di bontà attorno alla sua presenza come pure che dovesse trattarsi di qualcuno che era realmente a suo agio.
Ho sempre apprezzato i suoi insegnamenti pubblicati nei libri, come Il sapore della libertà. Sono di grande ispirazione. C’è un’apparente semplicità in essi ma vi si ritrova anche la profondità e la grandezza della sua saggezza. E anche se doveste leggerli numerose volte, ci sarà sempre qualcosa che vi raggiunge e vi colpisce, qualcosa di ispirante.
Domanda: Lo vedesti ancora in Thailandia?
Risposta: Sì, andai in Thailandia per la prima volta verso la fine del 1990; ero già un bhikkhu da nove anni e lui ormai era davvero malato e veniva accudito in una piccola kuti ospedaliera. Ajahn Nyanadhammo era là a quel tempo, e faceva parte del personale che si occupava di lui. Andavamo una volta alla settimana per il Wan Phra (giorno d’osservanza) a porgere i nostri omaggi. Ci sedevamo intorno, fuori, e se lui stava abbastanza bene lo portavano fuori sulla sua sedia a rotelle, noi porgevamo i nostri rispetti e cantavamo le paritta (canti di protezione).
Domanda: Hai avuto la possibilità di partecipare alla loro routine?
Risposta: No, non lo feci perché non sarei rimasto là a lungo e non conoscevo il thai. Pensai che sarebbe stato solo più difficile per gli altri. Non sapevo bene che fare.
Domanda: Come ti sentìsti allora, quando vedesti che non poteva camminare o parlare?
Risposta: Fu un momento triste, con una sensazione strana. Mi risultava difficile collegare il Luang Por Chah che avevo incontrato quand’era ancora vitale, ancora vivace ed energico, con qualcuno che era davvero simile ad un vegetale, nessun tipo di reattività, nulla. Era un po’ triste; ma c’era ancora qualcosa di edificante nella sua pāramī (perfezione d’animo), e la sua presenza era ancora così importante per talmente tante persone! Serviva a mantenere il Saṅgha coeso. Nel ritrovarsi insieme c’era un profondo senso del Saṅgha, e nei suoi confronti c’era davvero una gran quantità di devozione. Un grande essere può davvero smuovere tutto ciò nelle persone.
Traduzione di Roberto Bertozzi