Domanda: Con degli esempi tratti dalla tua esperienza, ci puoi raccontare cosa maggiormente ti ha colpito di Ajahn Chah?
Risposta: La maggior parte della mia esperienza personale con Ajahn Chah deriva dal periodo in cui, a partire dal gennaio 1979, andai a stare a Wat Pah Pong, dapprima come laico e in seguito, per molti mesi, come anagarika, o pa-khao (in thai, vestito di bianco). Ero uno dei nuovi arrivati in Thailandia e nella vita monastica: parlavo e capivo molto poco il thailandese e dipendevo in gran parte, per le traduzioni e le spiegazioni di quanto accadeva, dai monaci occidentali più anziani. Così le mie impressioni, in quel periodo, non erano tanto basate su dialoghi approfonditi, specifiche istruzioni sulla meditazione o altro del genere, quanto su quello che potevo cogliere del carattere di Ajahn Chah. Queste impressioni da un lato sovvertivano spesso i miei preconcetti su come si dovrebbe essere “illuminati”, mentre dall’altro – o a volte contemporaneamente – mi fornivano la prova che egli si muoveva ad un livello completamente diverso dagli altri. Si tratta di piccoli episodi in cui Ajahn Chah mostrava comportamenti inspiegabili, che ho avuto modo di osservare e di fissare nella mente.
Una volta io e un compagno pa-khao, un neozelandese, stavamo trascorrendo il pomeriggio caldo e umido impegnati in conversazioni spicciole sulla veranda della mia kuti. A quell’epoca, a Wat Pah Pong, gran parte della pratica formale veniva eseguita la mattina e la sera come attività di gruppo nella sala principale, mentre la propria kuti era una sorta di sancta sanctorum per la pratica individuale, durante la quale si supponeva che si dovesse essere quasi sempre da soli. Noi due avevamo kuti adiacenti, in un angolo lontano del monastero, eravamo diventati amici e ci scambiavamo compagnia e sostegno in questo modo, in pratica rilassandoci e scherzando. Potete immaginare con quale sorpresa e sensi di colpa vedemmo improvvisamente comparire sul sentiero della kuti Ajahn Chah, gridando e agitando le mani! Pensavamo di esserci guadagnati un rimprovero per non stare a meditare diligentemente, ma Ajahn Chah non sembrava affatto infastidito, non ci stava dicendo di smettere di parlare ma ci chiamava: “Venite qui, venite qui!”.
Si scopri così che Ajahn Chah si era preso una pausa dal suo ruolo di saggio in carica al Wat Pah Pong, oggetto di un flusso costante di visitatori alla sua kiuti, e aveva deciso invece di andare per il monastero a catturare i lucertoloni! Avendone appena avvistato uno nelle vicinanze, era venuto ad arruolarci in forze, e ci mimò pazientemente come fissare un laccio all’estremità di una canna di bambù. Ajahn Chah voleva molto bene ai polli selvatici, cui dava da mangiare riso nei dintorni della propria kuti, e voleva proteggerli dai loro nemici naturali, i grossi varani, ghiotti delle loro uova.
Ne seguì quindi quella che si rivelò essere una scena esilarante: due occidentali piuttosto goffi e inesperti, pungolati da un entusiastico Ajahn Chah, colui che avevano eletto come loro guida spirituale, che si dimenavano nella foresta cercando di acchiappare un grosso varano. Non era certo il genere di notizia che avevo immaginato di riferire scrivendo a casa! Ovviamente non avevamo speranze e alla fine rinunciammo senza aver preso nulla, ma non prima di aver riso di cuore di noi stessi.
Ciò che mi colpì di più di questo piccolo episodio fu il contrasto tra Ajahn Chah come “acchiappatore di lucertole”, dotato di una spontaneità molto naturale, una semplicità e uno schietto umorismo quasi infantile, e la maestosa formalità del suo ruolo come capo di un grande e importante monastero, come invece era unicamente apparso ai miei occhi fino a quel momento. Ciò ebbe l’effetto di scardinare molti dei miei preconcetti su come dovesse essere un grande e illuminato maestro: mi aiutò a vedere che Ajahn Chah era davvero molto naturale, addirittura divertente, e a sentirmi meno intimidito e più rilassato in sua presenza.
Mi ero impegnato per il Vassa (Ritiro delle piogge) di quell’anno come pa-khao con Ajahn Chah, quando inaspettatamente egli decise di lasciare Wat Pah Pong per andare al monastero del suo villaggio natale, Wat Gor Nork, a tre chilometri di distanza. Ero il più giovane dei quattro discepoli stranieri scelti per accompagnare Ajahn Chah in quello che si sarebbe rivelato un Ritiro delle Piogge alquanto singolare. Durante quel Vassa diede alcuni discorsi di Dhamma molto profondi in risposta a specifiche domande da parte di monaci occidentali più anziani, che approfittarono, in un posto così piccolo, della maggiore facilità di avvicinarsi ad Ajahn Chah. A quell’epoca, la maggior parte degli argomenti trattati era al di sopra delle mie capacità di comprensione, dato che il mio thai era ancora piuttosto limitato, ed ero spesso occupato in vari lavoretti, come la pulizia delle sputacchiere o quant’altro competesse alla mia umile posizione.
Ajahn Chah era venuto in questo piccolo monastero col preciso scopo di ristrutturarlo, e presto si dedicò a costruire una nuova sala principale. Lo si vedeva spesso sovrintendere ai lavori in corso: gironzolava impettito con il suo grosso bastone da passeggio, scandendo commenti e comandi in tono del tutto imperioso, apparentemente insoddisfatto, irritato o addirittura rabbioso. Era davvero molto minaccioso da guardare, ed io stavo cominciando a diventare un po’ scoraggiato, quando Ajahn Chah sembrò notare i miei dubbi su questo modo di fare. Gettò uno sguardo nella mia direzione e per rassicurarmi si indicò il centro del petto, dicendo: “Niente qui, niente qui!”.
Mi resi improvvisamente conto che era in realtà un attore consumato e riusciva a manifestare un tale comportamento senza esserne affatto preda. Egli stava semplicemente facendo quanto necessario per ottenere la giusta reazione da parte dei lavoratori del villaggio, che erano culturalmente condizionati a rispondere a quel modo di esprimere l’autorità.
In un’altra occasione lo vidi trasformarsi per calarsi nei panni di un vecchio zio o di un nonno gentile e gioviale, in risposta ad un gruppo familiare in visita: scenetta alquanto mielata che al momento mi colpì come palesemente artificiosa ma poi, a rifletterci bene, mi resi conto che, in quella situazione, era del tutto adatta a quelle persone, che andarono via felici e rincuorate.
Attraverso esperienze simili imparai a lasciare andare le opinioni preconcette su come dovrebbe presumibilmente comportarsi una persona illuminata. Ajahn Chah era molto abile ad adattarsi alle circostanze al fine di ispirare o insegnare agli altri, indubbio segno di una mente molto profonda. Un osservatore occasionale sarebbe stato indotto in errore sulle qualità mentali di chi mostrasse un tale comportamento. La purezza o la mancanza di contaminazione non possono essere dedotti direttamente: tutto ciò che si vede è una persona apparentemente normale che mostra caratteristiche e reazioni normali. Dovremmo quindi essere molto cauti nel trarre conclusioni o esprimere giudizi sulla base di tali osservazioni superficiali. Come il Buddha ci ha insegnato, è molto difficile per una persona non illuminata riconoscere la qualità di una persona saggia, ma è necessaria un’acuta osservazione, protratta per un lungo periodo di tempo. Questo è un punto molto importante.
Di ritorno a Wat Pah Pong, dopo quel Vassa, ebbi occasione di vedere Ajahn Chah dirigere un contingente di giovani soldati di leva che erano venuti a prestare servizio per ripulire il monastero, spazzando, raccogliendo foglie e altro. Era là, seduto nella sua sedia di vimini, che agitava il suo bastone e urlava ordini a destra e a manca. Accorgendosi che ero venuto a sedergli accanto, sotto la sua kuti, fece un riferimento indiretto al nostro precedente scambio a Wat Gor Nork, chinandosi verso di me e dicendo, con un piccolo sorriso: “Agli occidentali non si può certo parlare in questo modo, vero? “.
Mi colpiva fino a che punto avesse compreso il carattere degli occidentali e i loro problemi nell’intraprendere una formazione monastica. Anche se lui parlava per la maggior parte del tempo nel modo più adatto ai thailandesi, condizionati a riconoscere in tal modo un’autorità, era anche adattabile e svelto nel recepire il modo opportuno di trattare con gli occidentali, anche se non capivano la sua lingua. Gli abitanti del villaggio erano sempre stupiti da come Ajahn Chah, pur non avendo una grossa istruzione formale e possedendo poche raffinatezze mondane, potesse effettivamente insegnare ai tanti discepoli occidentali, senza neanche conoscere l’inglese. Se glielo facevano notare Ajahn Chah si limitava a ricordargli che essi stessi trattavano tutto il giorno con polli e bufali pur non parlando la loro lingua, e ci riuscivano benissimo!
Era un grande osservatore e riusciva a valutare con precisione la personalità di un nuovo venuto mentre si avvicinava, solo guardandone il volto, la postura o il modo di camminare. Ancor prima che si fosse seduto o avesse aperto bocca, Ajahn Chah faceva un commento ai presenti, come ad esempio: “Questo qui è pieno di dubbi!”. E la successiva conversazione lo confermava.
Più che altro, penso che fosse il suo umorismo che lo rendeva bene accetto agli occidentali, per i quali la presunzione, le forti opinioni o l’attaccamento a qualsiasi valore e raffinatezza mondana sarebbero stati gravi deterrenti. Ajahn Chah trovava sempre il modo di sgonfiare tutto questo! È molto difficile far notare a qualcuno le proprie contaminazioni, in modo da fargliele accettare senza suscitare resistenza, rifiuto od offesa. Essendo gli occidentali generalmente sensibili all’ironia, Ajahn Chah la buttava sullo scherzo. Con la sua arguzia rendeva le persone consapevoli dei propri difetti in modi molto divertenti, facendoli affezionare ancor di più.
Per la maggior parte del periodo che sono stato con Ajahn Chah capivo molto poco di thailandese, e quando ormai stavo migliorando la mia comprensione della lingua egli si ammalò a tal punto da non essere più in grado di parlare! Sono stati i nastri ed i libri prodotti negli anni successivi che mi hanno fatto conoscere quello che non avevo potuto comprendere direttamente. Ma non ho alcun rimpianto. Alla luce della pratica portata avanti da oltre 22 anni a questa parte, credo fermamente che l’iniziazione alla vita spirituale di quei primi periodi mi abbia dato quanto mi ha sostenuto finora. In sostanza, la semplice certezza che questa vita spirituale sia giusta, che funzioni e che è tutto ciò che serve.
Questa convinzione è scaturita direttamente dalla mia vicinanza all’esempio di Ajahn Chah, a questa persona che emanava un’integrità di ferro, che trasmetteva una certezza completa e una sorta di autorità naturale che incuteva rispetto. Messo di fronte pressoché quotidianamente ad ogni sorta di persone, problemi e domande, restava ben saldo nella sua posizione di tranquillità e sicurezza interiore. Nessuno riusciva a turbarlo o farlo deviare: era davvero impressionante. Non avevo mai visto nessuno così costante: sembrava essere la prova vivente dello star operando ad un livello completamente diverso dalle persone comuni.
Anche se non posso dire di aver avuto profonde discussioni o un rapporto personale stretto con Ajahn Chah, la fermezza espressa dalla sua sola presenza era sufficiente per ancorarmi ai principi della formazione che trasmetteva. L’esempio di una persona che ha raggiunto tali risultati nella pratica, che ha incarnato e sempre vissuto secondo il Dhamma, mi ha ispirato una grande fiducia. Non ho per questo mai avuto dubbi né problemi ad abbandonarmi al Dhamma. Non avevo mai avuto un maestro prima, neanche molta comprensione delle possibili implicazioni, ed ero anche una persona abbastanza critica, con inclinazioni piuttosto ciniche. La rinuncia a opinioni e preferenze, l’accettazione di semplicità e austerità, le tribolazioni della dieta, del clima e così via furono difficoltà che mi fu possibile affrontare con gioia, avendo accanto l’esempio di Ajahn Chah.
Senza il richiamo costante di un tale esempio è molto facile rimanere bloccati nelle proprie opinioni e atteggiamenti, e questo è uno dei principali ostacoli al successo nella formazione. Gli occidentali soprattutto hanno molti problemi perché sanno tante cose. Sanno che esistono altri insegnanti, altre tradizioni e libri in ogni dove… In questo si possono perdere, mai cogliendo veramente il senso complessivo delle cose. Ajahn Chah soleva dire: “Non leggete libri. Non scrivete a casa più di due volte l’anno. Siete venuti qui per morire!”. L’idea di vivere nella foresta in modo semplice in realtà mi piaceva, perché il mio carattere è naturalmente predisposto a questo. Intraprendere la vita della foresta non è stata per me una grande costrizione.
Spesso si crede che vivere con un maestro equivalga ad avere con lui un rapporto approfondito e personale, punteggiato da discussioni ponderate su gravi temi relativi alla vita spirituale e i suoi obiettivi più alti. Non è necessariamente così, per nulla. In realtà non accedi alla vita spirituale con tutto il cuore finché non rinunci a te stesso, alle tue opinioni e atteggiamenti. Il genio di Ajahn Chah stava nella sua capacità di farlo notare, orchestrando un episodio o una situazione di formazione in cui le persone potessero prendere coscienza delle proprie contaminazioni e imparare a non credere al loro proprio modo di pensare. Questo è di fondamentale importanza. È davvero difficile rinunciare alla autoreferenzialità senza il modello di qualcuno che lo ha fatto, pur vivendo nel suo stesso modo. Non mi sono mai posto il problema di chiedermi se dovevo continuare in questa formazione o andare altrove. L’esempio di Ajahn Chah mi ha ispirato a proseguire, e non ho visto alcun motivo per dover fare altro.
Col tempo gli insegnamenti si verificano attraverso la pratica e ci si accorge di come le cose cambino. Cambiano le abitudini, e cambia il proprio carattere. Con la diminuzione delle contaminazioni la vita si semplifica e la mente si tranquillizza. Tutto quello che ha detto Ajahn Chah è vero!
Traduzione di Carlo Duncan