Domanda: Qual è la caratteristica che più ti è rimasta impressa della persona di Luang Por Chah? Puoi farci qualche esempio tratto dalla tua esperienza?
Risposta: La prima volta che vidi Luang Por Chah fu quando, dopo essere atterrato in Gran Bretagna, uscì dal terminal dagli arrivi dell’aeroporto di Heathrow. Eravamo un gruppo di monaci ad attenderlo. Io ero con Ajahn Viradhammo e Ajahn Sumedho, mentre con Luang Por Chah c’era Ajahn Pabhakaro. Al primo sguardo notai la sua statura minuta, specie a confronto con quella di Ajahn Pabhakaro, ma nonostante ciò dava l’impressione di essere un uomo imponente, non aggressivo e completamente a suo agio. Ecco che si trovava in un paese straniero, era appena giunto dopo un lungo viaggio, non spiccicava parola della lingua locale ma teneva chiaramente la situazione sotto controllo. E sapeva esattamente dove voleva essere. Senza fretta, senza alcuna ansia. Con completa padronanza della scena, perfettamente bilanciato, con un aspetto caloroso ed amichevole. Non prevaricatore ma centrato. Assolutamente a proprio agio nell’ambiente, anche se era un paese straniero, i posti gli erano sconosciuti e l’idioma incomprensibile. Ed era così anche quando andavamo a trovarlo, era gentile. Sapeva perfettamente come ricevere gli ospiti. Era come andare a trovare il tuo zio preferito, come conoscerlo da sempre e avergli parlato per tutta la vita: era accomodante e caloroso, tanto da farti sentire subito a tuo agio. Di solito, quando incontri una persona “diversa” pensi che sia “meglio assicurarsi che tutto vada per il verso giusto”, ma con lui ti sentivi rilassato, perché ti sentivi benvoluto, immediatamente, grazie a tanta mettā. E questo sorprendeva, perché in genere chiunque ci mette un po’ prima di rilassarsi.
Poi alloggiò al Vihāra (residenza monastica) di Hampstead, a Londra, che era solo una casetta a schiera. Paragonato agli ampi spazi di Wat Pah Pong, aveva corridoi veramente stretti, stanze piccole ed era molto affollato. Ma lui era completamente a suo agio. Le donne sedevano talvolta a poca distanza, ma non ne faceva alcun problema. C’era gente che non si comportava come ci si deve comportare in Thailandia, non di proposito ma semplicemente perché agivano in maniera diversa. E si vedevano alcuni monaci giovani alquanto ansiosi di assicurarsi che tutto andasse per il meglio, ma lui era molto rilassato. E quando la gente gli rivolgeva delle domande, non capiva le parole – si faceva sempre tradurre da Ajahn Sumedho o Ajahn Pabhakaro – ma gli bastava guardarli. Solo una sensazione. Sembrava stesse solo notando il loro comportamento. Poi sopraggiungeva qualcuno con una domanda complicatissima, sull’Abhidhamma o altro del genere, quindi la traduzione e la sua battuta: “Pensare troppo non fa bene”. Oppure: “Talvolta è così e talvolta è in quest’altro modo”. Risposte molto semplici che si facevano strada al di sotto della domanda, dritte al cuore, al di sotto della testa. Aveva la dote di rendersi conto della provenienza delle persone. Era sempre molto gentile, simpatico e attento a non trascurare gli ospiti. Molto ricettivo e tanto paziente.
La gente ne rimaneva impressionata. Si sentivano prontamente toccati al cuore, e ne restavano colpiti. Il luogo era sempre pieno di persone che amavano sedersi attorno, per il piacere di restargli vicino. Magari senza domande da fare, ma solo per esserci, per godere della sua presenza e non essere nervosi, tesi o ansiosi come al solito. Essere in un posto dove una persona è talmente rilassata, piena di benevolenza, anche senza capire cosa dice, senza avere neanche una domanda da sottoporre, è di per se stesso una benedizione. Andava avanti per ore. Non sembrava mai variare il passo. Mai affrettato, mai divagante, tutto sembrava semplicemente fluire. Ogni cosa nel flusso. Mai di fretta, mai fermandosi, e mai ritornando sul discorso. Sempre nel flusso. Esattamente come nel libro “Il Dhamma vivente”: acqua immobile che scorre. Quell’immagine è come lui stesso era.
Inoltre, dava l’impressione di essere una persona dotata di uno spazio interiore più grande di quello esteriore. All’interno era come se avesse uno spazio enorme e quando la gente gli rivolgeva una domanda era come se la domanda penetrasse in quello spazio, per poi sparire. Succede come lanciare un razzo nel cielo: si alza nell’aria e sparisce. E in quel punto non c’è più nulla da colpire. Era impressionante essere al cospetto di una tale figura. Non avevo mai visto una persona così.
E c’era il suo senso della tempistica. Come, per esempio, quella volta che gli chiedemmo se sarebbe andato alla Buddhist Society per la cerimonia dei Cinque Precetti.
Disse: “Be’, forse ci andrò e forse no”.
Noi obiettammo: “Ma dobbiamo organizzare!”, e lui: “Può darsi che ci andrò. Ma forse non vado, non so di certo… Se non vado io, ci andrà Sumedho”.
Non si sapeva cosa fare, infine mandarono a prenderci con un’auto.
Allora disse: “Forse andrò, forse non andrò… Sumedho, vai tu”.
Quindi Sumedho si alza per andare, e si è appena seduto nell’auto quando arriva Luang Por Chah che dice: “Vengo”.
Si era tenuta la risposta fino all’ultimo secondo. Conforme al suo insegnamento sulla incertezza, il suo insegnamento principale. La gente era indaffarata a organizzare, fissare, vincolarlo a qualcosa e lui si era semplicemente rifiutato di stare al gioco. Tutto il suo equilibrio si poggiava su un sol punto, sul momento presente. Ogni altra cosa è sempre incerta. Era quindi così che sembrava eludere qualsiasi trama, tenendo fede a quel principio con tale forza che nulla e nessuno poteva ghermirlo. Non poteva essere trattenuto né sospinto, ma rimaneva nel luogo in cui si trovava. Incantevole.
Ebbi solo un colloquio privato con lui, ma forse non fu neanche tale. Eravamo in auto, lui seduto sul sedile anteriore ed io di dietro. Andavamo al Centro Buddhista in cui avrebbe alloggiato. Smontammo dalla vettura, c’erano persone che si occupavano dei bagagli ed io gli portai la ciotola nella stanza. Non appena stavo per lasciarlo disse: “Sucitto,” e mi fece cenno di sedermi. Pensai: “Ohimé…”.
Voleva solo avere una conversazione con me. Io riuscivo a malapena a dire una ventina di parole in thai mentre lui quattro o cinque in inglese, ciononostante parlammo per un’ora. In realtà non era molto importante il senso del discorso, si sentiva mettā. Afferravo una parola ogni tanto, a proposito di cibo o meditazione, oppure tudong o altro del genere. Qualcosina ogni tanto, ma ebbi la netta sensazione che mi stesse mettendo a mio agio. Che fossi nervoso era palese. Ma lui riusciva a dare ad ogni individuo tanta attenzione, per rasserenarlo, con tanto amore. E questo mi è rimasto molto impresso.
Traduzione di Carlo Duncan