Domanda: Che cosa ti colpì maggiormente in Ajahn Chah?
Risposta: Luang Por Chah aveva il dono di una grande mettā (gentilezza amorevole) e mi sentii fortemente benvoluto per il modo in cui mi accolse a Wat Pah Pong. Fin dal primo momento, quando lo conobbi, lo sentii fortemente interessato a me e intuii di trovarmi al cospetto di un uomo molto saggio. Benché all’epoca non avessi grande dimestichezza con il thailandese, mi piacque molto come viveva e il suo modo di essere. Come insegnante sembrava essersi reso subito conto del livello che avevo raggiunto nella pratica. Era dotato di uno stile di insegnamento molto diretto.
Non voleva che passassi molto tempo a leggere o studiare, piuttosto preferiva vedermi praticare. Con tutti enfatizzava “patibat” (la pratica). Quando feci la sua conoscenza mi disse subito di mettere da parte i libri e di leggere invece “citta”, la mia mente. Questo mi piacque molto perché ero abbastanza stanco di dedicarmi solo allo studio del buddhismo, desideravo molto di più praticarlo anziché leggerne, ed era proprio questo che mi incoraggiava a fare.
Nonostante tenesse molti discorsi – che però per i primi due anni non riuscii a capire – quello che sottolineava era l’importanza del “kor wat” (doveri monastici), il modo in cui si vive in monastero: prestare attenzione ad ogni cosa, avere cura amorevole del cibo e delle vesti, della kuti e del monastero. Lo trovavo molto simile ad uno specchio che rifletteva il mio stato d’animo. Sembrava sempre essere completamente presente. Se mi lasciavo prendere la mano da pensieri od emozioni, scoprii che il semplice fatto di essergli vicino mi permetteva improvvisamente di lasciar andare: potevo lasciar cadere i pensieri che trattenevo senza neanche parlargliene. La sua presenza mi aiutava a vedere che cosa stavo facendo e quello a cui mi aggrappavo. È stato così che decisi che avrei vissuto con lui fino a che mi fosse stato possibile, dato che monaci così sono difficili da trovare. Rimasi con lui a Wat Pah Pong per dieci anni, durante i quali mi mandava anche in giro per i vari monasteri associati.
Domanda: Sei mai stato testimone di qualche sua esperienza con poteri psichici?
Risposta: Questi discorsi di solito lo facevano sorridere. Era sempre molto chiaro sull’insegnamento del Buddha e non incoraggiava alcun tentativo di far mostra di poteri, invitando solo a sviluppare la consapevolezza nella vita quotidiana. Neppure troppo samādhi o pratica seduta formale, ma piuttosto un tipo di vita attiva che puntasse al presente – “paccuppanna-dhamma” – il “qui ed ora”. Questo era ciò di cui mi faceva rendere conto, ed è così che ho appreso l’insegnamento. Quando gli veniva rivolto un quesito a proposito dei poteri, diceva semplicemente: “Se compaiono non preoccupartene un granché. Se non li hai, bene. Se li hai, non attaccarti ad essi. Non credere di essere speciale perché possiedi dei poteri”.
Domanda: Ci sono stati momenti in cui sei stato felice di averlo come insegnante ed altri un po’ meno?
Risposta: Sì, poteva essere molto affascinante, e ti faceva sentire molto bene, ma poteva anche essere molto critico, davvero feroce. Eppure in Luang Por Chah ho sempre riposto fiducia. Sentivo che anche i momenti di critica nei miei confronti mi potevano tornare utili. Potevo rendermi conto dei miei sentimenti di rabbia verso di lui. A Wat Pah Pong ci si doveva conformare in tutto, e lui era solito tenere desana (discorsi sul Dhamma) molto lunghi la sera, a volte di quattro o cinque ore. E naturalmente io non riuscivo a capirli. Una volta iniziò un discorso in lingua laotiana e gli chiesi se potevo alzarmi e tornare a praticare nella mia kuti. Mi rispose: “No, no, devi rimanere e sviluppare pazienza”. Pensai che dovevo fare quello che mi diceva, e così feci. Ovviamente, quando ci si sente annoiati e anchilosati dallo stare seduti così a lungo, monta anche la rabbia. Pensavo che lui era quello con tutto il potere, lui era quello seduto sul seggio del Dhamma ed era lui che poteva decidere di interrompere il discorso, a suo piacimento. Iniziavo a percepire tutta questa rabbia, quest’ira, e allora mi dicevo: “Lascerò questo monastero, non ci voglio più stare”. Ma poi, rapidamente, tutto passava. Per qualche motivo il sentimento non attecchiva, non lo trattenevo. Mi ricordo che una volta ero veramente incollerito, aveva parlato a lungo ed ero davvero stanco e stufo di tutto quanto. Ed ecco che, alla fine del suo discorso, mi guardò sorridendo e mi chiese come andasse. Gli risposi che mi sentivo bene: di colpo tutta quella rabbia e quella stizza se ne erano andate via. Fondamentalmente avevo così tanta fede in lui che gli permettevo azioni tali da spingermi al limite, in modo da diventare consapevole del mio comportamento. Mi fidavo di lui e non mi sono mai sentito usato, o abusato o sfruttato, perché confidavo che mi stesse aiutando, anche quando non mi piaceva quello che stava facendo.
Domanda: Qual è il tuo punto di vista sul metodo di insegnamento di Luang Por Chah?
Risposta: Si basava sulla conoscenza di se stessi, sull’osservazione costante della nostra mente, del nostro cuore (citta), in modo da essere consapevoli in ogni momento di cosa si sta provando. Riconoscere le nostre emozioni ma non lasciare che si impadroniscano di noi. Continuare ad osservare le emozioni, ascoltare come ci si sente. Ebbi un sacco di emozioni che mi sorgevano dal fatto di essere l’unico farang (straniero, in lingua thailandese) in quel luogo: mi sentivo pervaso da incertezze e non comprendevo il tutto molto bene. A volte mi sentivo solo e altre volte mi sentivo arrogante. Molte cose che facevano le ritenevo stupide e non ero d’accordo, ma c’era quest’enfasi sul conoscere se stessi, comprendere la propria emozione, essere “colui che conosce”, o “puu – ruu” in thai. L’approccio “puu – ruu”, essere colui che conosce, lo trovai davvero molto utile. Incominciai a rendermi conto di come mi stessi creando sofferenza per voler rimanere aggrappato ai miei punti di vista o proiettando degli atteggiamenti sugli altri monaci. Ma quando riflettevo sulle condizioni esistenti, potevo vedere che erano in realtà molto buone. Disponevo di cibo e di quanto necessario, avevo un buon insegnante e i monaci erano sostanzialmente tutte persone molto brave. Contemplando la situazione ammettevo che era realmente un posto molto buono. Mi potevo così rendere conto che mi sorgevano delle emozioni di gelosia o paura, risentimento o arroganza, e l’approccio “puu – ruu” di Luang Por Chah mi permetteva di vedere che ero io a creare questi stati mentali. Una volta visti, potevo lasciarli andare. Non ero costretto a quei comportamenti. Appena diventavo consapevole di essere io il creatore di questi “arom” (stati d’animo), ero anche nella condizione di essere colui che conosce, colui che è consapevole. In questo modo riuscii a rielaborare tante abitudini emotive. Come forse potete immaginare, essendo l’unico straniero non sapevo cosa stesse succedendo o cosa stessero veramente pensando gli altri. Provavo un sacco di paure o paranoie, rimuginavo: “Che cosa staranno realmente pensando? Perché fanno questo?”. E tuttavia, grazie all’insegnamento – a “puu – ruu” – potei vedere che ero io a costruire tutto ciò, che la mia paura e le mie proiezioni su questo o quel monaco erano frutto della mia mente. Non erano attribuibili a quel monaco. Creavo tutto da solo.
Traduzione di Carlo Duncan