Scheda su I testi della disciplina monastica (Vinayapiṭaka), traduzione dalla pāli di Vincenzo Talamo, edito, con una prefazione, da Antonella Serena Comba, voll. I-II, Lulu, Raleigh 2012. (vol. 1 e vol. 2)
Il Vinaya-piṭaka o “Canestro della disciplina” è la prima delle tre sezioni che compongono il Canone buddhista in pāli. È un testo corposo (in questa traduzione, 901 pagine complessive), che, diviso a sua volta in varie sezioni, espone la regola monastica della scuola del Theravāda (227 precetti per i monaci, 311 per le monache). Dovrebbe quindi, almeno in teoria, interessare soprattutto le monache e i monaci che applicano tale regola; tuttavia la sua lettura è utile per molti motivi anche alle praticanti laiche e ai praticanti laici. Anzitutto il Vinaya contiene celebri aneddoti sulla vita del Buddha e dei suoi discepoli e narra la storia, talvolta drammatica, della primitiva comunità monastica, per esempio i tentativi compiuti da Devadatta per assassinare il Buddha e impadronirsi della guida del Saṅgha. Questi famosi episodi hanno ispirato e continuano a ispirare l’arte e la letteratura buddhiste.
In secondo luogo, troviamo nel Vinaya anche uno dei primi esempi di democrazia: le decisioni nella comunità monastica sono prese a maggioranza, con votazioni a scrutinio palese o segreto – tanto è vero che uno dei padri costituenti indiani, Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956), si ispirò proprio al Vinaya per redigere le leggi costituzionali della Repubblica indiana. Noi oggi possiamo dare per scontata l’esistenza della democrazia, ma, in una società classista come quella dell’India ai tempi del Buddha, il fatto che l’unica gerarchia fra i monaci fosse stabilita in base all’anzianità e che ogni decisione fosse presa a maggioranza era certamente eccezionale. Come pure era straordinario permettere alle donne, benché con particolari precetti, di ricevere l’insegnamento del Dhamma e di entrare nel Saṅgha, in un contesto come quello brahmanico che le escludeva completamente dall’àmbito del sacro e dell’insegnamento vedico.
In terzo luogo, il Vinaya è prezioso perché descrive una pratica che di per sé è estremamente efficace: lo vediamo nelle monache e nei monaci che conosciamo, nel loro sguardo, nei loro modi. La vita monastica ha senz’altro qualcosa di divino, altrimenti non si chiamerebbe brahmacariyā (letteralmente, “condotta di Brahmā”, cioè “divina”). Sembra incredibile che questa enorme massa di regole possa portare a una tale calma, eppure è così: ogni gesto si fa consapevole, in un processo di apprendimento che valorizza la semplificazione radicale della vita. Inizialmente ci vuole un certo studio, poi si può correre il rischio di avere un eccessivo timore di violare le regole o di diventare degli azzeccagarbugli che si attaccano alla lettera della norma e alle sue interpretazioni. Infine l’osservanza delle regole diventa naturale e sorregge potentemente ogni altra pratica. Allora si capisce a cosa serve il Vinaya: a confrontarsi con se stessi senza schermi. Anche con gli altri monaci, ovviamente; e con i laici, anzi, molte regole sono state stabilite proprio per la pacifica convivenza tra i monaci e i laici sostenitori del monastero.
Oggi l’applicazione del Vinaya, che resta quasi lo stesso nelle varie scuole buddhiste, è talvolta influenzata dalle usanze delle varie etnie che fanno capo ai monasteri e ciò accresce ancora l’importanza della lettura dei testi originali. Questa traduzione di Vincenzo Talamo è senz’altro un passo avanti in direzione di una versione italiana completa del Canone, così come lo sono state, due secoli fa, le prime versioni inglesi di Thomas William Rhys Davids e Oldenberg (Vinaya Texts, 1881-1885, voll. I-III, traduzione parziale) e Isaline Blew Horner (Book of the Discipline, voll. I-V, 1938-1966) per una conoscenza del Vinaya in Occidente.
Antonella Serena Comba