di Ajahn Mahapañño
I cinque nīvaraṇa, “impedimenti” (per approfondire), sono gli ostacoli comuni per tutti i praticanti allo sviluppo di una mente calma e a quello della conseguente saggezza. Gli esercizi che vengono proposti si basano su accrescere l’abilità della mente a non rimanere bloccata in uno di questi impedimenti, promuovendone l’agilità riflessiva e una modalità di relazionarvisi diversa. Alcuni dei suggerimenti contenuti in un esercizio potrebbero essere estesi anche ad altri impedimenti, ma al fine di facilitare l’apprendimento può essere più utile incominciare focalizzandosi con una strategia alla volta per ciascun nīvaraṇa, per poi apprezzare sempre maggiormente le tante possibilità con cui è possibile disidentificare la mente dai propri contenuti.
Esercizio 1: Kāmacchanda – desiderio sensoriale
Esercizio 2: Vyāpāda – malevolenza
Esercizio 3: Thīna-middha – pigrizia e torpore
Esercizio 4: Uddhacca-kukkucca – agitazione e ansia
Esercizio 5: Vicikicchā – dubbio
Esercizio 1: Kāmacchanda – desiderio sensoriale.
Una domanda semplice ma opportuna è perché la mente rimanga appiccicata ai desideri. La risposta è quasi scontata: perché attribuisce agli oggetti desiderati dai sensi un aspetto piacevole da cui trarre felicità. Se però sviluppiamo una percezione di questi oggetti diversa da quella comunemente in vigore, ponendo attenzione a quegli aspetti degli oggetti stessi che innegabilmente non sono affatto piacevoli, ma possono risultare non attraenti e scomodi o addirittura repellenti, allora la mente modifica il suo atteggiamento e ritrova il suo naturale equilibrio.
Ovviamente a questo punto può sorgere un’altra domanda: se sottraggo alla vita questa percezione di piacere cosa mi rimane? La risposta è immediata, la libertà spirituale.
Se siete interessati ad essa, allora proseguite nella lettura delle successive riflessioni di pratica, altrimenti meglio fermarsi qui per non coinvolgersi in un diniego o una potenziale polemica a favore dei propri desideri, che non sarebbe di alcun beneficio per nessuno.
Il cibo è un piacere, peccato però che questo piacere nasca dal dover placare una sensazione disagevole, la fame, e poi continui con altro disagio per la necessità di espellere dal corpo i suoi residui solidi, liquidi e gassosi. Riflettendoci meglio risulta così un piacere piuttosto relativo, con cui però avremo già riempito quante ipotetiche stanze con gli alimenti fino ad oggi consumati? Quanti metri cubi ci siamo già ingeriti? E su quanti altri siamo ancora disposti ad investire parte della nostra felicità?
Prendiamo un boccone dal bel piatto davanti a noi, mastichiamolo bene, e rimettiamolo nel piatto … è sempre invitante?
Modifichiamo la nostra percezione del cibo, riportandola alla sua funzione fondamentale di nutrimento praticando attenzione non solo alla “portata”, ma anche a tutto il processo del nutrirsi: la fatica del reperire il cibo, cucinarlo, masticarlo, digerirlo, espellerlo …
Tutto questo per il corpo, perché per il corpo abbiamo una radicata attrazione, sia esso nostro o quello altrui.
Ma di un corpo da cui siamo attratti cosa effettivamente vediamo? Poco, veramente poco, la nostra attenzione è decisamente selettiva e limitata, viziata dal desiderio. Ci dimentichiamo di come sia fatto: ossa, tendini, muscoli, vari liquidi ed organi … tutte cose che in genere non vorremo avere accanto, tranne quando non le vediamo. Il tutto è ricoperto dalla pelle, con la peluria più o meno evidente, i suoi foruncoli, i suoi “adorabili” nei che non importa se siano piccole masse tumorali! In realtà non vediamo neppure la pelle.
Passa un corpo improfumato, e non ci viene in mente che se è improfumato è solo perché di sua natura non lo è, ma anzi nel giro di poco tempo da una doccia, maleodorerà nuovamente.
Abbiamo fatto degli esempi abbastanza grossolani, ma i desideri sensoriali sono anche molto più sottili e si estendono a tutto il campo della vista, udito, olfatto, gusto e tatto.
Incominciamo comunque la pratica di asubha (riflessione sugli aspetti non attraenti, repulsivi) dal cibo e dal corpo, prendiamo questi spunti come un invito a provare a pensare in modo alternativo e dopo un primo imbarazzo scopriremo un lato creativo e divertente, ma sopratutto la libertà del vivere senza essere più ingannati da una mente condizionata a percepire solo alcuni degli aspetti della realtà che ci circonda.
Esercizio 2: Vyāpāda – malevolenza
La malevolenza, il rancore, la rabbia, l’astio, l’odio e tutte le possibili forme di avversione sono uno degli impedimenti più facili da superare, perché la “cura” è la più piacevole, è la gentilezza amorevole, la benevolenza.
Un monaco thai anziano con cui potevamo comunicare solo a gesti e poche parole in inglese, la descrisse così: allargò le braccia ed espirò completamente – “AHHH” – con un sorriso.
Sparsi nella nostra quotidianità ci sono tanti di questi momenti che però non notiamo. Una buona doccia, finalmente sedersi in poltrona o togliersi le scarpe, gustarsi un bicchiere d’acqua, esclamare a ragione “Fatto!” o semplicemente augurare a qualcuno “Buongiorno”… momenti in cui c’è un sollievo fisico e mentale, preziosi spunti per aprire il cuore.
Iniziamo a notarli, a collegarli l’uno all’altro, dargli continuità, dargli più spazio affinché il cuore assuma sempre più l’abitudine sana di dimorare nella benevolenza, affinché il cuore la possa veramente conoscere ed assorbire, e non ci sia più posto per l’avversione.
Come in quel facile gioco delle riviste enigmistiche dove c’è il punto 1, il 2, 3 ecc. che vanno uniti, così diventiamo consapevoli dei momenti di apertura spontanea del cuore nella nostra quotidianità, tracciamone il disegno, sviluppiamo la pratica in modo che possa apparire ovvia la figura di benevolenza che fa da possibile sostrato alle nostre esperienze.
Esercizio 3: Thīna-middha – pigrizia e torpore
Durante la meditazione seduta il torpore è un impedimento abbastanza frequente, anche perché siamo spesso abituati ad associare il rilassamento ad uno sprofondare comodo della mente.
Nell’inspirare possiamo facilmente verificare che stiamo energizzando anche la nostra mente, ma per il sorgere del torpore è soprattutto alla fase di espirazione a cui dobbiamo prestare attenzione, quando l’espirazione tende a t-r-a-s-c-i-n-a-r-s-i, allungandosi pesantemente, sfumando frastagliata e portando giù con sé la testa, facendo piegare il collo ed incurvare le spalle assieme alla schiena. In questi casi neppure la successiva inspirazione può essere in grado di ritirarci su. Facciamo attenzione affinché l’espirazione non assuma tali caratteristiche, evitiamo di assecondarle.
Quando al termine della nostra giornata sarà giunta l’ora di coricarsi, ritorniamo ancora al respiro, pronti ormai a dormire, spegniamo la luce, e sereni non enfatizziamo l’inspirazione se non per alcuni respiri profondi, mentre invece ci raccogliamo ad accompagnare gentilmente l’espirazione verso il riposo.
Conoscendo entrambe queste opposte situazioni, quella della meditazione in cui la mente deve essere sveglia e quella in cui la mente può andare a dormire, e soprattutto conoscendo le caratteristiche del respiro nelle sue fasi di inspirazione ed espirazione, eviteremo con maggiore probabilità di invertire inutilmente le situazioni stesse, appisolandosi in meditazione e restando insonni la notte.
Esercizio 4: Uddhacca-kukkucca – agitazione e ansia
Nella meditazione seduta l’agitazione ha una possibilità ridotta di esprimersi attraverso il movimento fisico, la frenesia però si riversa, di contro, nell’attività mentale con un gran vociare di pensieri.
Raccogliamo la nostra attenzione alla gola, a questa zona del corpo che genera la voce, e che in qualche modo è persino associabile a questo vociare. Non andiamoci con l’atteggiamento di creare “un nodo in gola”, ma anzi con ciò che abbia la paziente tolleranza di scioglierlo, rilassando questa zona. Dovremmo così poter notare una riduzione dell’attività mentale.
Facciamo ora scendere la nostra attenzione alla parte bassa del corpo, che poggia a terra. Sentiamo il contatto con la Terra e lasciamo che le tensioni fisiche e mentali si scarichino in essa. La Terra accoglie tutto senza problemi, è troppo vasta e profonda per preoccuparsi dei movimenti superficiali che avvengono sulla crosta terrestre. È stabile senza punti di appoggio, nel vuoto ruota appesa, forse ad un ritmo simile al nostro respiro…
Esercizio 5: Vicikicchā – dubbio
Se sorgono dei dubbi, un sicuro ostacolo alla calma mentale, invece di provare a trovare delle risposte tormentate e traballanti, enfatizziamoli generando altre dubbiose domande, portiamoli all’estremo del loro grottesco, facciamoli collassare nei paradossi delle loro incertezze senza risposta se non nel nascere di un sorriso interiore dovuto al lasciare andare.
Mettiamoli in evidenza per quello che sono: “Dovrei focalizzare l’attenzione al respiro nella zona attorno alle narici?”, “oppure al petto …”, “forse all’addome”, “oppure alle orecchie … o in qualche altro orifizio del corpo!?, “Ma starò respirando correttamente? E il Buddha sarà mai veramente esistito?” … forse, chissà, ma, e anche però!
Semplicemente respiriamo. Un respiro alla volta diventa evidente la marginalità dei nostri “dubbi esistenziali”: “Cosa farò da grande?”, tipico dubbio dei vecchi ragazzi. Qui una risposta ovvia ci sarebbe: tutti prima o poi moriremo. Impegniamoci così per vivere rettamente e se facciamo degli errori ce ne assumeremo le responsabilità. Facile, possiamo tagliare corto, con la consapevolezza del respiro che ci richiama alle cose importanti.