Richard F. Gombrich, Il pensiero del Buddha. Traduzione di Roberto Donatoni, Milano, Adelphi Edizioni, 2012, pp. 283, euro 30.
Il problema degli studi accademici è la eccessiva specializzazione: quando si scava a lungo in un campo, si perde la visuale su ciò che c’è intorno. Nell’ultimo secolo i buddhologi hanno scavato molto, talvolta perdendo il contatto con il mondo circostante. Le loro ricerche non collegano il buddhismo al suo contesto vedico, ma lo considerano in modo isolato, come fosse un’eresia dell’induismo. Il loro scetticismo mette in dubbio che sia mai esistito un Buddha storico, che la pali (che è una parola femminile) sia una lingua, che il Canone sia attendibile, che i “buddhismi” delle varie scuole siano riconducibili a un’unica fonte. La scarsa comunicazione fra mondo accademico e comunità dei praticanti ha aggravato la situazione. D’altronde, ben pochi membri della comunità sarebbero in grado di reagire a questa moda decostruzionistica fortemente distruttiva, avanzando argomenti storici e filologici che possano essere considerati validi dal mondo accademico.
Ora finalmente c’è un’autorevole intervento da parte di uno studioso di chiara fama – che si dichiara apertamente “non buddhista” – in favore di una “ricostruzione” della figura del Buddha e della sua dottrina. Richard Gombrich mostra come il Canone, in quanto fonte, non sia da buttar via, come la lingua pali abbia una sua pregnanza e come la figura del Buddha, ricollegata allo sfondo vedico in cui predicò, acquisti uno spessore storico non trascurabile. Il Buddha infatti usa continuamente il linguaggio vedico rovesciandone il significato: il kamma da atto rituale e sacrificio diventa intenzione etica, il fuoco da veicolo del sacrificio e divinità somma diventa simbolo della sofferenza, il brahman (l’Assoluto delle Upanishad) e il dio Brahmā si trasformano in parole che, in composto, indicano la vita pura dei monaci (brahmacariya) e le dimore divine dell’amore, della compassione, della gioia simpatetica e dell’equanimità (brahmavihara). Forse tutti noi lo sospettavamo, ma nessuno aveva rintracciato con la cura e la competenza del Gombrich nei testi vedici le parole che il Buddha reinterpreta per provocare la presa di coscienza del suo uditorio. Anche il confronto del Canone con le fonti del jainismo è un metodo importante per capire meglio il vocabolario del Buddha e le sue implicazioni, e come tale potrebbe dare ancora grandi risultati. Per molti secoli la satira del Buddha non è stata capita e il suo linguaggio figurato è stato interpretato alla lettera, dunque era molto difficile che i suoi epigoni potessero comporre testi falsi ricchi proprio di quelle antiche metafore; questa dunque è la prova migliore per dimostrare l’esistenza di quello che il Gombrich vede come uno dei più brillanti e originali pensatori della storia.
Il volume si presenta come la rielaborazione di dieci conferenze tenute a Londra nel 2006: il linguaggio è scorrevole (nell’ottima traduzione di Roberto Donatoni, recentemente scomparso) e il tono garbatamente polemico tiene desta l’attenzione. È un libro che consiglio a tutti coloro che sono interessati al Theravada e alla vipassana.
Antonella Serena Comba