Un’introduzione alla vita e agli insegnamenti di Ajahn Chah
di Ajahn Amaro
Le cose essenziali: visione, insegnamento e pratica
Prima di descrivere i punti nodali degli insegnamenti di Ajahn Chah può essere di giovamento, soprattutto per coloro che non hanno familiarità con il buddhismo theravāda in generale, o con la Tradizione Thailandese della Foresta in particolare, delineare previamente qualche termine chiave e alcuni punti di vista e concetti utilizzati da entrambi. Gli insegnamenti di Ajahn Chah e il suo modo di insegnare sono da collocare nel contesto di questa tradizione, ed è utile avere un’impressione di massima a proposito di queste radici fondamentali per capire meglio come Ajahn Chah fu in grado di applicarle ed illustrarle.
Le Quattro Nobili Verità
Sebbene nelle varie tradizioni esistano numerosi volumi dei discorsi del Buddha, si dice pure che il suo Insegnamento è tutto contenuto nel suo primissimo discorso, detto la Messa in Moto della Ruota del Dhamma [1], tenuto poco dopo la sua Illuminazione per i suoi cinque compagni monaci nel Parco delle Gazzelle nei pressi di Varanasi. In questo breve discorso – sono necessari solo venti minuti per recitarlo – il Buddha espose le caratteristiche della Via di Mezzo e le Quattro Nobili Verità. Questo insegnamento è comune a tutte le tradizioni buddhiste, e proprio come una ghianda contiene in sé il codice genetico di ciò che prenderà la forma di una grande quercia, allo stesso modo si potrebbe dire che pure la miriade di insegnamenti buddhisti derivi da questa essenziale matrice di saggezza.
Le Quattro Nobili Verità sono formulate come una diagnosi medica della tradizione ayurvedica: i sintomi della malattia, la causa, la prognosi e la cura. Il Buddha si avvalse sempre di strutture e forme familiari alla gente dei suoi tempi, e, in questo caso, ecco come impostò la descrizione.
La Prima Nobile Verità è che c’è il “sintomo”, dukkha: percepiamo un senso di incompletezza, insoddisfazione o sofferenza. Ci possono essere momenti e anche lunghi periodi durante i quali proviamo felicità di natura ordinaria o perfino trascendente, ma altre volte il cuore è scontento. Ciò può variare tra i due estremi di un’ampia scala, l’angoscia estrema da un lato e, dall’altro, la più debole sensazione che la felicità che stiamo vivendo non durerà a lungo: tutto ciò può essere definito dukkha.
Talora alcuni leggono questa Prima Verità travisandola, come se si trattasse di un’affermazione assoluta: «la realtà è dukkha in ogni sua dimensione». L’affermazione è intesa come un giudizio di valore per qualsiasi cosa, ma il significato non è questo. Se così fosse, ciò indicherebbe che non vi è speranza di liberazione per nessuno, e che comprendere la verità di come sono le cose, il Dhamma, non potrebbe condurre alla pace e alla felicità permanenti che, secondo l’intuizione del Buddha, tale comprensione produce. Ciò che più conta, perciò, è che queste sono verità nobili, non assolute. Sono nobili nel senso che, sebbene siano relative, quando sono comprese ci conducono alla realizzazione dell’Assoluto o della Realtà Ultima.
La Seconda Nobile Verità è che la causa di dukkha è la brama centrata sull’io, taṇhā in pāli – in sanscrito, trshna – che letteralmente significa “sete”. È questa brama, questa avidità, la causa di dukkha. Può trattarsi di brama per i piaceri dei sensi, brama di diventare qualcosa e di identificarsi con qualcosa, oppure di non essere, desiderare di scomparire, di annullarsi o di sbarazzarsi di qualcosa. Le dimensioni della brama sono numerose e sottili.
La Terza Nobile Verità è la prognosi, dukkha-nirodha. Nirodha significa “cessazione” e indica che questa esperienza di dukkha, di incompletezza, può svanire, può essere trascesa. Può terminare. In altre parole, dukkha non è una realtà assoluta, è solamente un’esperienza temporanea, dalla quale il cuore può essere liberato.
La Quarta Nobile Verità è quella del Sentiero, il modo in cui ci muoviamo dalla Seconda alla Terza Verità, dalla causa di dukkha alla sua cessazione. La cura è l’Ottuplice Sentiero, che può essere riassunto come virtù, concentrazione e saggezza.
La Legge del Kamma
Uno dei fondamenti della visione buddhista del mondo consiste nell’inviolabilità della legge di causa ed effetto: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale ed opposta. Questo si applica non solo al regno della realtà fisica, ma anche – ed è ciò che più conta – ai regni psicologici e sociali.
Il Buddha comprese la natura della realtà e ciò lo condusse a vedere la connotazione morale dell’universo. Le buone azioni fanno maturare risultati piacevoli, atti dannosi fanno maturare risultati dolorosi: questo è il modo in cui la natura funziona. Gli effetti possono giungere subito dopo l’atto oppure in un futuro davvero lontano, ma un effetto che riecheggerà la causa, debole o forte che sia, seguirà necessariamente. In lingua pāli questa diade “azione-risultati” è chiamata kamma-vipāka ed ha un significato prossimo al più familiare termine sanscrito karma.
Il Buddha chiarì che l’elemento chiave del kamma è l’intenzione, come affermano le parole iniziali del Dhammapada, il testo più famoso ed amato di tutte le scritture theravāda:
Tutto ciò che siamo è generato dalla mente.
È la mente che traccia la strada.
Come la ruota del carro segue
l’impronta del bue che lo traina
così la sofferenza ci accompagna
quando sventatamente parliamo o agiamo
con mente impura.
Tutto ciò che siamo è generato dalla mente.
È la mente che traccia la strada.
Come la nostra ombra incessante ci segue
così ci segue il benessere
quando parliamo o agiamo
con purezza di mente [2].
Questa comprensione, imparata in tenera età e data per scontata nella maggior parte dell’Asia, risuona in varie forme nella maggior parte degli insegnamenti di Dhamma. Sebbene sia quasi un articolo di fede nel mondo buddhista, è certamente anche una legge che ognuno, invece di accettarla ciecamente per fiducia nei riguardi del maestro o in quanto imperativo culturale cui adeguarsi, può conoscere per esperienza.
Quando Ajahn Chah incontrò gli Occidentali che affermavano di non credere nel kamma così come lui ne parlava, piuttosto che criticarli, oppure respingerli quali detentori di “errata visione” e costringerli a pensare come lui, si interessò al fatto che qualcuno potesse vedere le cose in un modo così differente. Chiese di descrivergli come pensavano che stessero le cose e assunse proprio quel punto di partenza per i suoi discorsi.
Tutto è incerto
Un altro degli insegnamenti centrali e spesso ripetuti è quello delle Tre Caratteristiche dell’Esistenza. Dal secondo discorso tenuto dal Buddha – l’Anattālakkaṇa Sutta [3] – e nel prosieguo per tutto il suo insegnamento, Egli illustrò il fatto che tutti i fenomeni, sia interni sia esterni, sia mentali sia fisici, hanno tre qualità invariabili: anicca-dukkha-anattā, impermanenza, incompletezza, non-sé. Tutto è in costante cambiamento, nulla può essere soddisfacente ed affidabile in modo durevole, niente si può dire che sia davvero nostro e nemmeno si può affermare chi e cosa siamo in senso assoluto. E allorché queste tre qualità siano state viste e conosciute per esperienza diretta, si può davvero dire che siamo all’alba della conoscenza.
Anicca è il primo membro della triade che forma la conoscenza, e Ajahn Chah costantemente sottolineò per anni che la contemplazione di tale triade è il primario varco d’accesso alla saggezza. Così afferma in uno dei suoi discorsi, in Acqua ferma che scorre:
Quando parliamo di “incertezza”, stiamo parlando del Buddha. Il Buddha è il Dhamma. Il Dhamma è la caratteristica dell’incertezza. Chi vede l’incertezza delle cose, vede quella che è la loro realtà immutabile. È così che è il Dhamma. E questo è il Buddha. Se vedete il Dhamma vedete il Buddha, vedendo il Buddha vedete il Dhamma. Se conoscete anicca, l’incertezza, lascerete andare le cose e non vi aggrapperete a nulla. [4]
Una caratteristica dell’insegnamento di Ajahn Chah è che, al posto di anicca, egli utilizzò abitualmente la meno consueta interpretazione di “incertezza” (mai neh, in thailandese). Mentre “impermanenza” può avere una sfumatura più astratta o tecnica, “incertezza” descrive meglio ciò che il cuore prova quando incontra la qualità del cambiamento.
Scelta espressiva: “si” o “no”
Una delle caratteristiche più suggestive degli insegnamenti theravāda è che sia la Verità sia la strada che a questa conduce sono entrambe spesso indicate parlando di ciò che esse non sono, piuttosto che di ciò che sono. Nel linguaggio teologico cristiano si parla di “metodo apofatico” – dire ciò che Dio non è – in contrasto con il “metodo catafatico” – dire ciò che Dio è.
Quest’approccio apofatico, conosciuto anche come via negativa, fu utilizzato nel corso dei secoli da un certo numero di illustri cristiani; tra questi, viene subito in mente il famoso mistico e teologo San Giovanni della Croce. Quale esempio di tale approccio, così si procede nella sua Salita al Monte Carmelo per descrivere il metodo spirituale più diretto, ossia su per la montagna: «Nulla, nulla, nulla, nulla e, perfino sulla Montagna, nulla».
Il Canone pāli ha per molti aspetti lo stesso sapore della via negativa e, per questo, taluni lettori hanno spesso frainteso la visione della vita in esso contenuta come nichilistica. Niente potrebbe essere più lontano dal vero, ma è facile comprendere come un tale errore sia possibile, soprattutto se si proviene da una cultura impegnata ad esprimersi affermando la vita.
La storia vuole che, poco dopo l’illuminazione, il Buddha fosse in cammino su una strada che attraversava la campagna del Magadha per ritrovare i cinque compagni con i quali aveva praticato l’austerità prima di andare alla ricerca della Verità da solo, per conto suo. Sulla strada un altro asceta itinerante, di nome Upaka, vide avvicinarsi il Buddha e ne fu grandemente colpito. Il Buddha non aveva solo l’apparenza di un nobile principe guerriero per il portamento regale che gli proveniva dalla sua educazione. Oltre ad essere alto più di un metro e ottanta e straordinariamente gentile, benché fosse vestito con i cenci degli asceti itineranti, risplendeva di un radiante splendore. Upaka era impressionato:
«Chi sei, amico? Il tuo volto è così chiaro e luminoso, il tuo portamento è gentile e sereno. Certamente devi aver scoperto una qualche grande verità. Chi è il tuo maestro, amico, e cosa hai scoperto?».
Il Buddha, da poco risvegliato, rispose: «Io sono Colui che tutto ha trasceso, un Conoscitore di tutto. Non ho maestro. In tutto il mondo io solo sono perfettamente illuminato. Non c’è nessuno che me l’abbia insegnato. Vi sono giunto per mezzo dei miei sforzi».
«Vuoi intendere che pretendi di avere ottenuto la vittoria sulla nascita e sulla morte?».
«Infatti, amico, io sono il Vittorioso; ed ora, in questo mondo di cecità spirituale, vado a Varanasi a suonare il tamburo del Senzamorte».
«Bene, buon per te amico», disse Upaka e, scuotendo il capo, andò via e prese una direzione diversa». [5]
Questo incontro fece comprendere al Buddha che mere dichiarazioni della verità non necessariamente fanno sorgere la fede e possono anche non essere efficaci nel comunicarla agli altri. Così, quando raggiunse il Parco delle Gazzelle nei pressi di Varanasi e incontrò i suoi precedenti compagni, egli adottò un metodo molto più analitico – vibhajjāvada, in pāli – e così formulò le Quattro Nobili Verità. Ciò rifletteva lo spostamento di piano dall’espressione «Io ho realizzato la completezza» a «Investighiamo perché tutti esperiscono l’incompletezza».
Nel secondo discorso del Buddha – l’Anattalakkhana sutta – che fu pure pronunciato nel Parco delle Gazzelle nei pressi di Varanasi e che indusse tutti e cinque i suoi compagni a realizzare l’illuminazione, tale metodo della via negativa si mostra con grandissima chiarezza. Non è questo il luogo per analizzare dettagliatamente questo sutta. Riassumendo, il Buddha utilizza come tema la ricerca del sé – attā in pāli, ātman in sanscrito – e, avvalendosi di un metodo analitico, dimostra che un “sé” non può essere rintracciato in relazione ad alcun elemento del corpo o della mente.
Dopo averlo dimostrato, il Buddha afferma che «il saggio e nobile discepolo diventa distaccato nei riguardi del corpo, delle sensazioni, delle percezioni, delle formazioni mentali e della coscienza». Così, il cuore è liberato. Una volta che lasciamo andare ciò che non siamo, appare la natura di ciò che è reale. E siccome quella realtà è al di là di ogni descrizione, è più opportuno e meno fuorviante non descriverla: questa è l’essenza della “via della negazione”.
Soprattutto nella tradizione theravāda, la parte del leone nell’insegnamento del Buddha la fanno l’indicazione della “natura” del Sentiero e il miglior modo di percorrerlo, non una magnificazione poetica della meta finale. Per buona parte, questo è vero anche per lo stile di Ajahn Chah. Egli evitò quanto più possibile di parlare dei livelli di conseguimento e di assorbimento meditativo, sia per contrastare il materialismo spirituale – progresso mentale, competitività e gelosia – sia per far sì che gli occhi della gente guardassero verso ciò di cui più avevano bisogno: il Sentiero.
Detto questo, Ajahn Chah era notevole per la prontezza e l’immediatezza con le quali, se l’occasione lo richiedeva, parlava della realtà ultima, indipendentemente dal fatto che quanti erano riuniti per ascoltarlo fossero giovani o anziani, laici o monaci. Ovviamente, se riteneva che una persona non era matura per comprendere – anche in questo caso non importava se avesse ricevuto o meno l’ordinazione monastica – ma questa insisteva nel porre domande su questioni riguardanti la trascendenza, egli poteva rispondere come fece una volta, quando gli fu chiesto se ci fosse qualcosa al di fuori dei cinque khanda, ossia della convenzionale mente-corpo: «Non è nulla e non lo chiamiamo nulla – questo è tutto quello che ci deve essere. Piantatela con tutto». In modo letterale: «Se lì non c’è niente, allora datelo semplicemente in pasto ai cani!».
L’enfasi sulla Retta Visione e sulla Virtù
Se gli si chiedeva quali fossero per lui gli elementi essenziali dell’insegnamento, spesso Ajahn Chah rispondeva che la sua esperienza gli aveva mostrato che ogni progresso spirituale dipendeva dalla Retta Visione e dalla purezza della condotta. Della Retta Visione, una volta il Buddha disse: «Non vi è fattore più utile della Retta Visione per far sorgere stati mentali benefici». [6]
Instaurare la Retta Visione significa in primo luogo avere un’affidabile mappa del terreno della mente e del mondo – soprattutto per valutare in relazione alla legge del kamma – e, in secondo luogo, osservare l’esperienza alla luce delle Quattro Nobili Verità, per poi trasformare quel fluire di percezioni, pensieri ed umori in combustibile per la visione profonda. Tali quattro cardini diventano le direzioni della bussola mediante la quale orientiamo la nostra comprensione e, perciò, la guida delle nostre azioni e intenzioni.
Ajahn Chah considerava sīla, la virtù, come il gran protettore del cuore ed incoraggiava un sincero impegno nei Precetti da parte di tutti coloro che prendevano seriamente la ricerca della felicità e miravano ad una vita sapientemente vissuta, sia che fossero in questione i Cinque Precetti dei laici o gli Otto, Dieci o 227 Precetti dei vari livelli della comunità monastica. Azioni e linguaggio virtuosi – sīla – pongono direttamente il cuore in sintonia con il Dhamma e divengono così il fondamento per la concentrazione, la visione profonda e, infine, la liberazione.
Per molti aspetti sīla è il corollario esteriore delle qualità interiori della Retta Visione, e vi è una relazione di reciprocità tra loro. Se comprendiamo la causalità e vediamo le relazioni tra brama e dukkha, le nostre azioni avranno allora certo una maggiore possibilità di essere armoniose e contenute; similmente, se le nostre azioni e il nostro linguaggio sono rispettosi, onesti e non violenti, creiamo dentro di noi i presupposti della pace e ci risulterà molto più agevole vedere le leggi che governano la mente e come queste funzionino, così che la Retta Visione si svilupperà con maggiore facilità.
Uno dei risultati specifici di questa relazione – Ajahn Chah ne parlò costantemente – è che nonostante l’intrinseca vacuità di tutte le convenzioni, quali ad esempio il denaro, il monachesimo, i costumi sociali, esse comunque necessitano di essere del tutto rispettate. Ciò può suonare in un certo qual modo paradossale, ma egli considerò la Via di Mezzo come sinonimo per la risoluzione di tal genere di enigma. Se ci attacchiamo alle convenzioni, saremo gravati e limitati da esse, ma se cerchiamo di sfidarle o di negarle ci sentiremo perduti, in conflitto e confusi. Egli vide che con il giusto atteggiamento entrambi tali aspetti potevano essere rispettati, e in un modo che era naturale e liberatorio, non forzato o compromissorio.
Probabilmente, fu a causa della sua profonda comprensione in quest’ambito che Ajahn Chah fu in grado di essere sia straordinariamente ortodosso e austero come monaco buddhista sia completamente rilassato e libero dalle stesse regole che osservava. A molti che lo incontrarono parve che egli fosse l’uomo più felice del mondo, forse un’ironia per un uomo che mai nella sua vita aveva provato il sesso, non aveva denaro, mai aveva ascoltato musica, era sempre a disposizione della gente da diciotto a venti ore al giorno, dormiva su una sottile stuoia, era diabetico ed affetto da varie forme di malaria, ed era deliziato dal fatto che il Wat Pah Pong fosse considerato il posto con il peggior cibo del mondo.
[1] Dhammacakkappavattana Sutta, in Saṃyutta Nikaya 56.11.
[2] Dhammapada, vv. 1-2, in Khuddaka Nikaya 2; la trad. ital. è tratta da Dhammapada per la contemplazione. Una versione di Ajahn Munindo, Monastero Santacittarama 2002, p. 12.
[3] Saṃyutta Nikaya 22.59.
[4] Con lievi variazioni rispetto a Ajahn Chah, Una corrente d’acqua ferma, in Id., Il Dhamma vivo. Insegnamenti ai laici, Roma 1994, p. 98.
[5] Vinaya, Mahāvagga 1.6.
[6] Anguttura Nikaya 1.16.2.
INDICE
- Le cose essenziali: visione, insegnamento e pratica
- Le Quattro Nobili Verità
- La legge del Kamma
- Tutto è incerto
- Scelta espressiva: “si” o “no”
- L’enfasi sulla Retta Visione e sulla Virtù
- Metodi di addestramento
- Insegnare ai laici, insegnare ai monaci
- Contrastare la superstizione
- Umorismo