Un’introduzione alla vita e agli insegnamenti di Ajahn Chah
di Ajahn Amaro
Metodi di addestramento
Il modo in cui Ajahn Chah addestrava i suoi discepoli si articolava in modo molteplice e differenziato. Istruzioni erano certamente impartite verbalmente in molte delle maniere già descritte, ma la maggior parte del processo di apprendimento avveniva mediante ciò che al meglio potrebbe essere descritto come “metodo situazionale”.
Ajahn Chah comprese che il cuore, per imparare ogni aspetto dell’insegnamento e per essere trasformato da esso, necessitava di assorbirlo per mezzo dell’esperienza, non solo intellettualmente. Così, egli impiegò le migliaia di eventi ed aspetti della routine monastica e della pratica del tudong come modi per insegnare ai suoi discepoli e per addestrarli. Progetti di lavoro della comunità, imparare a recitare le regole, collaborare alle faccende quotidiane, casuali modifiche nel programma: tutto ciò ed altro ancora era utilizzato come ambito per investigare il sorgere di dukkha e la via che conduce alla sua cessazione.
Incoraggiava l’atteggiamento di essere pronti ad imparare da ogni cosa. Enfatizzava continuamente che noi siamo gli insegnanti di noi stessi: se siamo saggi, ogni problema personale, ogni evento e aspetto della natura ci insegnerà; se siamo stolti, perfino essere di fronte al Buddha che ci spiega tutto non sortirebbe alcun effetto.
Questa intuizione trovava conferma anche nel modo in cui egli si relazionava alle domande che la gente gli poneva: indagava i presupposti dei loro quesiti, più che rispondere negli stessi termini in cui era posta la domanda. Spesso, quando gli si chiedeva qualcosa, sembrava che egli prendesse le domande e le facesse gentilmente a pezzi, per poi ridarle così frantumate a quanti lo avevano interrogato, i quali dovevano poi trovare autonomamente il modo di rimetterle insieme. Con loro stessa sorpresa, li aveva guidati a trovare da soli una risposta alle loro domande. Quando gli si chiedeva come gli fosse possibile fare ciò così spesso, rispondeva: «se la persona non conoscesse già la risposta, non sarebbe in grado di porre la domanda».
Altri atteggiamenti chiave da lui incoraggiati erano il bisogno di coltivare un profondo senso di urgenza nella pratica di meditazione e – ancora un paradosso – di utilizzare l’ambiente circostante per addestrarsi a sviluppare una paziente sopportazione. In tempi recenti, soprattutto in Occidente quest’ultima qualità non ha ricevuto grande attenzione negli ambienti spirituali “aggiusta tutto e subito”, ma nella vita della foresta è considerata per lo più come sinonimo di addestramento spirituale. Quando il Buddha stava impartendo le primissime istruzioni di disciplina monastica, in una spontanea riunione di 1.250 dei suoi illuminati discepoli nel Bosco di Bambù, queste furono le sue parole iniziali: «La paziente sopportazione è la pratica suprema per liberare il cuore da stati non salutari». [1]
Così, allorché qualcuno si recava da Ajahn Chah per raccontargli le proprie disgrazie – magari il marito beveva e quell’anno il raccolto del riso sembrava pessimo – la sua prima risposta spesso era: «riesci a sopportarlo?». Non si trattava di una sorta di “sfida macho”, ma era ben di più un modo per indicare come la strada che conduce al di là della sofferenza non consiste nel fuggire da essa, o nello sguazzarvi e nemmeno nello stringere i denti e far ricorso alla sola forza di volontà: no. L’incoraggiamento di paziente sopportazione consiste nel mantenersi costantemente nel bel mezzo della difficoltà, comprendere davvero e digerire l’esperienza di dukkha, per capirne le cause e lasciarle andare.
Insegnare ai laici, insegnare ai monaci
Certo numerose furono le occasioni in cui gli insegnamenti di Ajahn Chah potevano essere applicati sia ai laici sia ai monaci, ma vi erano anche molti altri casi nei quali non era così. Una tale distinzione non era dovuta al fatto che alcuni insegnamenti fossero “segreti” o per certi versi più “alti”, ma piuttosto alla necessità di parlare in modi che fossero appropriati ed utili per chi nello specifico si trovava ad ascoltare.
Rispetto ai monaci, i praticanti laici avrebbero ovviamente avuto una diversa gamma di preoccupazioni ed condizionamenti durante la vita quotidiana: per esempio, cercare di trovare il tempo per praticare la meditazione formale, conservare una fonte di reddito, vivere in coppia. Inoltre, più in particolare, la comunità laica non si era impegnata nei voti per una vita di rinuncia. Un discepolo laico di Ajahn Chah si sarebbe mediamente impegnato nello standard di rispettare i Cinque Precetti, mentre nel contesto monastico gli Otto, i Dieci o i 227 Precetti dei vari livelli della comunità religiosa.
Insegnando solo ai monaci, il punto focale era molto più lo specifico utilizzo della vita di rinuncia quale metodo chiave di addestramento; l’istruzione avrebbe perciò coinvolto gli ostacoli, le insidie e le glorie connesse a quel genere di vita. Dal momento che l’età media dei componenti di una comunità monastica in Thailandia si aggira di norma tra i 25 ed i 30 anni, e che i precetti concernenti la castità sono osservati in modo estremamente severo, vi era una naturale necessità per Ajahn Chah di orientare l’irrequietezza e l’energia sessuale di sovente sperimentate dai suoi monaci. Se ben indirizzati, i singoli sarebbero stati in grado di contenere e di impiegare quell’energia, e di trasformarla per contribuire a sviluppare concentrazione e saggezza.
I toni di alcuni dei suoi discorsi ai monaci potrebbero in qualche caso essere considerati ben più aspri di quelli rivolti alla comunità laica. Questo modo di esprimersi rappresenta un aspetto del caratteristico stile “senza compromessi”, tipico di molti maestri della Tradizione Thailandese della Foresta. È un modo di parlare che che mira a risvegliare il “cuore guerriero”, quell’atteggiamento nei riguardi della pratica spirituale che rende pronti a sopportare ogni difficoltà, saggi, pazienti e fedeli, indipendentemente da quanto le cose si facciano difficili.
Talora, i toni di un tal modo di esprimersi possono risultare troppo duri o combattivi; chi ascoltava questi insegnamenti teneva ovviamente fermo nella mente che lo spirito soggiacente ad un tale linguaggio mirava sempre ad incoraggiare, ad allietare il cuore ed a fornire energia di supporto per affrontare le multiformi sfide per liberare il cuore da ogni avidità, odio ed illusione. Come Ajahn Chah disse una volta: «Tutti coloro che si impegnano seriamente nella pratica spirituale devono attendersi di sperimentare una gran quantità di attriti e difficoltà». Il cuore viene addestrato per andare contro l’intensa corrente delle abitudini incentrate sul sé, ed è perciò naturale che risulti sballottato.
Per concludere su questo aspetto degli insegnamenti di Ajahn Chah, in particolare su quelli che si possono definire “più alti” o “trascendenti”, significativamente egli non ritenne che un qualcosa di specifico fosse riservato ai monaci. Se sentiva che un qualche gruppo di persone era pronto per il più alto livello d’insegnamento, lo impartiva in modo libero e aperto. Ad esempio, in uno dei suoi discorsi per un gruppo di laici osservò che «di questi tempi la gente va lontano per studiare, in cerca del bene e del male. Ma nulla sanno di ciò che è al di là del bene e del male», e poi proseguì offrendo esaustive istruzioni per trascendere tale dualismo. Come il Buddha, Ajahn Chah non era un “maestro dal pugno chiuso” [2], che tratteneva qualcosa per sé, e faceva le sue scelte per cosa insegnare sulla sola base di ciò che sarebbe stato utile ai suoi ascoltatori, indipendentemente dal numero dei loro precetti e di quale fosse la loro affiliazione religiosa, se ne avevano una.
Contrastare la superstizione
Una delle caratteristiche che più rese noto Ajahn Chah era la sua arguzia nel dissolvere la superstizione connessa in Thailandia alla pratica buddhista. Egli criticò fortemente i ciondoli magici, gli amuleti e la divinazione che tanto pervadono quella società. Raramente parlò di vite passate o future, di altri regni dell’esistenza e di esperienze psichiche. Chiunque si recasse da lui per chiedergli un suggerimento sul prossimo numero vincente della lotteria – un motivo molto comune per cui talune persone vanno a trovare famosi Ajahn – otteneva in genere scarsissima attenzione.
Egli pensava che il Dhamma stesso fosse il gioiello più inestimabile che, in grado di fornire autentica protezione e sicurezza nella vita, era però continuamente trascurato in ragione della promessa di lievi miglioramenti nel saṃsāra. Mosso da un genuino sentimento di gentilezza per gli altri, sottolineò ripetutamente l’utilità e la fattibilità della pratica buddhista, contrastando la comune credenza che il Dhamma fosse troppo elevato o astruso per una persona comune. Le sue critiche miravano non ad abbattere infantili dipendenze da buona sorte e magici amuleti: piuttosto egli voleva che le persone investissero in qualcosa che sarebbe stato davvero utile.
Alla luce di questo impegno durato tutta una vita, nel 1993 circostanze dai risvolti ironici accompagnarono il suo funerale. Eglì morì il 16 gennaio del 1992 e il suo funerale si svolse esattamente un anno dopo. Lo stūpa commemorativo ebbe 16 colonne, fu alto 32 metri e venne dotato di fondamenta profonde 16 metri. Di conseguenza, un gran numero di persone della provincia di Ubon acquistò biglietti della lotteria che recassero contemporaneamente i numeri uno e sei. Il giorno dopo i titoli dei quotidiani locali proclamarono «L’ultimo regalo di Luang Por Chah ai suoi discepoli. I 16 hanno fatto piazza pulita e qualche scommettitore è perfino andato in bancarotta».
Umorismo
Questo aneddoto ci conduce infine ad un’altra caratteristica dello stile d’insegnamento di Ajahn Chah. Egli era un uomo sorprendentemente arguto, un attore per natura. Benché potesse essere sia davvero freddo e minaccioso sia sensibile e gentile nei suoi modi di esprimersi, egli utilizzò anche un alto grado d’umorismo per insegnare. Aveva un modo tutto suo di far lavorare l’arguzia nei cuori dei suoi ascoltatori, non tanto per divertire, ma per facilitare la trasmissione di verità che altrimenti non sarebbero state accolte così facilmente. Il suo spirito e il suo occhio, esperti nelle tragicomiche assurdità della vita, consentivano alle persone di vedere le situazioni in modo da poter ridere di se stessi, guidati da una più saggia prospettiva.
Ciò poteva avvenire a riguardo del comportamento, come in una sua famosa esibizione sui numerosi modi sbagliati in cui i monaci portano la yarm [3] – a tracolla sulla schiena, avvolta attorno al collo, stretta nel pugno, trascinata sul terreno – oppure … in relazione a qualche dolorosa lotta personale. Una volta un giovane bhikkhu andò da lui davvero abbattuto. Aveva visto le pene del mondo e l’orrore degli esseri intrappolati nella nascita e nella morte, ed aveva deciso: «Non sarò mai più in grado di ridere, tutto è così triste e doloroso». Dopo tre quarti d’ora, grazie ad una vignetta su un giovane scoiattolo che cadeva in continuazione durante i suoi sforzi per imparare ad arrampicarsi sugli alberi, il monaco, scosso da una risata che sembrava non dover più cessare, si rotolava sul pavimento stringendosi i fianchi, mentre le lacrime gli scendevano in volto.
[1] Dhammapada, vv. 183-185, in Khuddaka Nikaya 2; Dīgha Nikaya 14.3.28.
[2] Maha Parinibbana Sutta, in Digha Nikaya 16.
[3] Borsa tipica utilizzata dai monaci.
INDICE
- Le cose essenziali: visione, insegnamento e pratica
- Le Quattro Nobili Verità
- La legge del Kamma
- Tutto è incerto
- Scelta espressiva: “si” o “no”
- L’enfasi sulla Retta Visione e sulla Virtù
- Metodi di addestramento
- Insegnare ai laici, insegnare ai monaci
- Contrastare la superstizione
- Umorismo