(Tratto da Breve introduzione al Buddhismo theravada di Ajahn Amaro, pubblicato su www.santacittarama.org)
Quello che ci ha portato a questo ritiro … è la “Grande D” : Dukkha. Ciò che guardiamo molto da vicino durante la meditazione è il ponte che unisce la Seconda alla Terza Nobile Verità: come sorge la sofferenza, qual è la causa della sofferenza e come possiamo arrivare alla sua cessazione. Il Buddha ha posto un’immensa cura per spiegare questo punto. Ha parlato delle Quattro Nobili Verità in molti discorsi, analizzando in modi assai sottili il rapporto tra la Seconda e la Terza Verità.
Ha usato il termine idapaccayata per definire la “causalità”. Letteralmente la si può all’incirca tradurre con “la condizionalità della relazione tra questo e quello”. Riguarda il modo in cui le cose sono venute in essere – di come una catena di cause porta all’esistenza di dukkha e di come una catena di cause porta alla sua cessazione. Vi è un breve passaggio ripetuto continuamente nei sutta, che trovo molto utile da ricordare:
Quando c’è questo, quello viene ad esistere.
Con il sorgere di questo, quello sorge.
Quando non c’è questo, quello non viene ad esistere.
Con la cessazione di questo, quello cessa. (A.10.92)
Questo è lo schema fondamentale che sta alla base di tutti gli insegnamenti sulla causalità. Analizzando il sorgere di dukkha – da dove viene? – il Buddha indica l’ignoranza.
Il Buddha, soprattutto negli Insegnamenti theravāda, evita ogni forma di speculazione metafisica. Non è affatto: “all’inizio dell’universo ci fu questo evento, e poi Dio batté le palpebre. Per questo noi soffriamo”. E nemmeno va visto come un giro di prova. C’è un romanzo di Kurt Vonnegut in cui tutta l’evoluzione umana, il corso della storia umana, tutte le guerre e i regni e le crisi e le glorie, accadono a causa di un alieno, un Tralfamadoriano, che si schianta con la sua navicella spaziale sulla terra e che cerca di inviare un messaggio al suo pianeta di partenza: “Potete inviarmi un nuovo spinterogeno, perché il mio si è danneggiato?”. Tutto il percorso della storia umana è stato determinato solo per avere un modo di spedire quel messaggio attraverso lo spazio.
Certe volte ci viene in mente che ci possa essere questo tipo di logica perversa dietro a ciò che sperimentiamo nella vita, ma il Buddha non entrò nel merito di ciò. Egli volutamente ha evitato di cercare di descrivere qualsiasi inizio assoluto delle cose non perché ignorava come si erano svolti i fatti o perché era del tutto inutile contemplare la natura della vita, ma soprattutto perché la sola speculazione metafisica era insensata e non portava alla liberazione. Usava l’efficace similitudine della freccia avvelenata per illustrare tale principio: un soldato è stato ferito in battaglia. Un medico militare accorre per aiutarlo, ma il soldato dice: “Non permetterò che il medico mi estragga la freccia fino a quando non riuscirò a sapere se l’uomo che mi ha ferito è un nobile, un bramino, un mercante o un operaio… il nome dell’uomo e il suo ceto… se era alto o basso, biondo o bruno, dove vive, che tipo di arco ha usato, di che legno era fatto l’arco… da che uccello ha preso la piuma, ecc.
“Quell’uomo non sarebbe stato in grado di sapere tutte quelle cose, poiché nel frattempo sarebbe morto” disse il Buddha (M 63,5). Morale della favola è che la sola saggia e importante cosa da fare è estrarre la freccia e medicare la ferita. Da questo punto di vista egli ha semplicemente detto che la causa centrale del problema è l’ignoranza, il non vedere in modo chiaro. L’intero ciclo inizia proprio dal non vedere chiaramente: siccome non c’è totale consapevolezza, totale presenza mentale, totale adesione alla realtà, perdiamo l’equilibrio.
Questo principio è conosciuto sotto il nome di Originazione Dipendente. In un certo senso è il cuore di tutto l’insegnamento, il codice originario per il saṃsāra e il nibbāna (nirvāṇa in sanscrito). È così che il Buddha ha analizzato la natura dell’esperienza nel modo più radicale. Inoltre egli ha affermato che la realizzazione dell’Originazione Dipendente è stata la strada verso la sua illuminazione, e ha prescritto di realizzarla a coloro che erano interessati a curarsi la malattia, dukkha.
Quando c’è ignoranza, ogni senso di “soggetto” e “oggetto” si cristallizza, si solidifica il senso di questo e quello. Si identifica il “sé” con il corpo, e i sensi e il “mondo esterno” con gli oggetti sensoriali esterni. Poiché c’è un corpo e dei sensi, noi udiamo, pensiamo, odoriamo e così via. Ci sono piacere, dolore o sensazioni neutre, sensazioni di interesse, avversione, eccitazione, qualunque tipo di sensazioni. All’inizio è solo una sensazione, ma poi da quella sensazione sorge il desiderio. Una sensazione piacevole farà sorgere il desiderio di trattenerla, di conoscerla più da vicino: “Ohibò, che è questo? Che buon odore!”. Questa è una sensazione che si sta tramutando in bramosia. C’è il contatto sensoriale, la sensazione, e da questa sorge poi la bramosia. Se è una cosa dolorosa o spiacevole ci ritiriamo, desideriamo allontanarci da essa. Poi la bramosia porta all’attaccamento, upādāna.
Upādāna a sua volta porta al “divenire” (bhāva in pāli). Mi piace vederla come un’onda che sale. La mente si impadronisce di un’esperienza: “Forse giù in cucina hanno bisogno di aiuto. Sì, certamente ne hanno bisogno. Posso sbucciare una castagna o due. Posso veramente essere d’aiuto.” Questo è upādāna. Poi bhāva ci spinge ad alzarci dal cuscino e a dirigerci verso le scale. Il divenire punta verso l’oggetto del desiderio e agisce di conseguenza. La società consumistica corre senza sosta, sospinta da bhāva. Tutta l’industria pubblicitaria e la cultura consumistica hanno come scopo di alimentare bhāva: l’eccitazione di un io che sta per ottenere ciò che desidera.
Poi viene jāti (“nascita”). La nascita è il momento in cui otteniamo ciò che vogliamo. È il momento in cui non si torna più indietro. Bhāva è un punto da cui possiamo ancora ritirarci. Potremmo già essere sulle scale e pensare: “Ritorna dentro. Avanti, è a metà di un discorso di Dhamma. Questo è veramente troppo!”. C’è ancora il tempo di ripensarci. Ma da jāti non si può più tornare indietro. Il dado è tratto, e siamo lì a raccontare la nostra storia al cuoco e ad ottenere ciò che volevamo.
“Certo, puoi essermi di aiuto. Puoi mescolare questo e poi assaggiarlo?”.
Pensiamo “Ahhh, ce l’ho fatta!” Quello è il momento in cui abbiamo ciò che volevamo. Poi, dopo aver ottenuto ciò che volevamo, ne subiamo le conseguenze. Come tutti sappiamo, dopo essere nati, molte cose accadono nella vita. Dopo il momento della nascita si svolge tutto l’arco della vita. Passato l’eccitamento e dopo aver assaggiato tutto quello che abbiamo potuto, l’emozione suscitata comincia a svanire. Sorge un senso di disagio: “Buon Dio, ma che sto facendo? Trascinato in giro dal mio naso! Ma quando imparerò a vincermi?”. Ci assalgono sensazioni di auto critica, di auto disprezzo e delusione: “Dopo tutto non era poi così buono! Dopo tutto… Sono stato lì seduto montandomi la testa per venti minuti, per poi scoprire che hanno messo troppo sale”. Questo viene chiamato soka-parideva-dukkha-domanassupayasa: “dispiacere, lamento, dolore, cordoglio e disperazione”. (Come il nostro caro manager del ritiro ha detto “Queste sono alcune delle cose che preferisco”). Allora cosa succede? Siamo lì, sentendoci quasi scandalizzati, delusi, depressi. E questo è dukkha. Quella lunga parola composta non significa altro che dukkha ci si sente male.
E allora cosa facciamo quando ci sentiamo male? Questo è interessante. Il Buddha ha detto: “Dukkha matura in due modi: continuando il ciclo delle rinascite o dedicandosi alla ricerca”. Nel primo caso ci sentiamo malinconici, infelici e allora pensiamo: “Forse hanno bisogno di aiuto per la torta!”.
Se non ne siamo consci, accade che torniamo indietro al momento in cui ci siamo sentiti veramente bene, al punto cioè di bhāva-jāti quando c’era stato il primo fremito d’eccitazione. Quello era stata l’ultima volta in cui ci eravamo sentiti bene. Perciò torniamo a quel momento e proviamo a sentirci di nuovo bene. E lo facciamo di nuovo e di nuovo e di nuovo…
“Dukkha matura nella ricerca” significa comprendere che “da questa esperienza ci sono già passato 153.485 volte, basta ora basta. Come ne posso uscire? Che posso fare? Che succede? In che modello si inserisce?”. Noi siamo creature piuttosto coriacee – parlo per esperienza personale. Ci prendiamo un sacco di colpi prima di imparare la lezione.
Possiamo essere molto convincenti. Ci montiamo veramente la testa e ci troviamo ogni sorta di scuse. Ma ciò che ci conduce qui a un ritiro è il riconoscimento che cercare di trovare la felicità per mezzo di questo genere di gratificazioni non funziona. È questo che intendiamo per “ricerca”, cercare alla radice per trovare come funzionano le cose.