del venerabile Ajahn Viradhammo
© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Silvana Ziviani
Basato su un discorso tenuto al Monastero di Chithurst nel Luglio del 1989.
Secondo me la vita monastica è un modello che il Buddha ci ha offerto, per indicarci come tutti possono praticare. Talvolta i laici chiedono: “Ma come devo fare io che sono un laico?” La vita laica è molto varia e le situazioni cambiano in continuazione. Alcuni hanno famiglia, altri no. Ci sono un’infinità di stili di vita, per cui è molto difficile stabilire un modello valido per tutti.
Però sono stati dati alcuni suggerimenti per i laici: mantenere i precetti, vivere moralmente, praticare la generosità. Sono stati offerti i precetti sulla Retta Parola, Retta Azione, Retto Sostentamento, ma la pratica laica deve essere creativa e usare la vita stessa come un veicolo verso la libertà, e questo dipende da ciascuno individualmente. La vita monastica è più uniforme perché viviamo insieme sulla base di regole; i praticanti laici possono osservare come funziona questo modello per rifletterci sopra e contemplarlo.
Il prerequisito fondamentale e basilare della vita monastica è l’abbandonarsi, l’arrendersi a certe formalità e alla disciplina. Prendiamo i precetti e accettiamo questo stile di vita; è una scelta che facciamo.
Ma poi la situazione in cui ci siamo messi non presenta più molte scelte. C’è una gerarchia, c’è una regola da seguire per relazionarsi con gli uomini e le donne, abbiamo molte regole per quanto riguarda la cura delle nostre vesti e delle cose del monastero. Abbiamo anche regole che governano la suddivisione delle cose. Abbiamo vari modi per ammonire, per eseguire le ordinazioni, per fare processi legali. Come ordine monastico accettiamo questo training e a queste formalità.
Alcuni pensano che le regole siano un impedimento alla libertà, ma in realtà questo abbandonarsi o impegnarsi ci dà l’occasione di osservare, invece che la libertà di fare sempre tutto ciò che vogliamo.
Prima di essere ordinato bhikkhu (monaco), avevo vissuto per un certo tempo in India e avevo moltissima libertà fisica. Ero riuscito a fare in modo di vivere con circa 10 dollari al mese. Non avevo i condizionamenti della mia cultura d’origine per cui ero enormemente libero.
Ma precipitai in una gran confusione, perché a quel tempo ancora credevo che se avessi fatto ciò che volevo, mi sarei in qualche modo realizzato. Invece scoprii che fare ciò che volevo mi rendeva solo via via più frustrato, perché le aspettative non finivano mai. Non poneva fine a quell’agitazione di fondo che io cercavo continuamente di vincere attraverso qualche esperienza, di viaggio, di rapporti, o altro.
In realtà per un po’ questo tipo di libertà fu divertente, ma alla fine mi condusse alla disperazione: più vivevo nel mondo con tutte le sue situazioni ed eventi, più capivo che non poteva funzionare. Poi mi capitò la fortuna di diventare bhikkhu.
Non fu facile, ma non era questo lo scopo. Il primo anno di vita monastica fu terribilmente frustrante, il secondo anno fu terribilmente frustrante e il terzo anno fu terribilmente frustrante! Non potevo scompigliare le cose come mi pareva, non potevo andare nel monastero che volevo:
Andavo da Ajahn Chah e gli dicevo: ” Luang Por, voglio andare a questo o quell’altro monastero”. E lui rispondeva: “Cosa non va in questo? Sono io che non ti piaccio?”. Il modo di fare di Ajahn Chah andava dritto a frustrare il desiderio e lo faceva senza remore. Non gli importava se il discepolo si arrabbiava con lui! Così egli dimostrava la sua compassione: la compassione di frustrare. Richiede un bel coraggio, no? Allora decisi che se volevo avvicinarmi in qualche modo alla verità che il Buddha cercava di indicare, dovevo semplicemente fermarmi e osservare. Non potevo continuare a sistemare le cose in modo che si accordassero con i miei desideri. Ci avevo già provato e avevo visto che non funzionava.
La ragione per cui avevo intrapreso quel modello di vita, quella via, non era per divertirmi, né perché volevo ricavarne qualcosa. Lo avevo fatto perché volevo essere in grado di osservare la natura del desiderio frustrato e non solo di quello soddisfatto.
Questo impegno a rispettare una certa struttura permette la libertà di osservare. Potete portarla nella vostra vita? Per esempio, la famiglia, il lavoro, la struttura sociale in cui vivete possono essere tutti veicoli per arrivare alla comprensione spirituale, purché accettiate il fatto che vi possono dare frustrazione, invece di cercare sempre di sistemare le cose in modo che corrispondano ai vostri desideri e ai vostri bisogni. Naturalmente, se la situazione divenisse pericolosa, dovete intervenire e cambiarla. Ma la solita monotona, noiosa, pedante vita è fatta della stessa sostanza dell’illuminazione, se ci prendiamo il tempo di osservare come è fatta.
L’impegno è quindi molto importante, e questo viene espresso dalla veste che è il simbolo dell’impegno. La responsabilità può essere usata come un impegno o vista come un peso. Nel prendermi la responsabilità di essere il monaco anziano, potrei avere una specie di sindrome da martire: “Oh, povero me, devo essere il monaco anziano…” oppure potrei sentirmi soddisfatto per questo: “Ehi, guardatemi, sono il monaco anziano…” oppure potrei vederlo semplicemente come una convenzione: “Sono il monaco anziano. In effetti preferirei essere una mosca sul muro, ma eccomi qui: monaco anziano”.
Poi osservo che sensazioni mi dà: c’è piacere o dispiacere, sento che farò bene la mia parte o che ne sarò incapace. Osservo insomma come la mente funziona in questa situazione piuttosto che cambiarla o risistemarla a seconda della mia opinione personale.
Applicando questo esempio alla vostra situazione, chiedetevi: “Cosa mi capita sul lavoro?”, “Cosa mi capita a casa?”. Il lavoro non sempre è soddisfacente: può essere noioso, interessante, fastidioso, ma possiamo far uso di questo impegno che ci siamo assunti. Se continuiamo a cambiare a seconda del desiderio personale, non potremmo mai capire come opera la mente. Perciò l’impegno è fondamentale per capire la nostra mente umana.
All’interno dell’impegno ci sono tre elementi che ho trovato molto utili per la mia pratica: scoperta, addestramento e purificazione.
La scoperta (a volte chiamata vipassana) è fondamentale perché la via buddhista è la via del risveglio. Non è la via per sbarazzarsi di qualcosa o raggiungere qualcosa nel futuro. Sono cose, queste, legate all’ego, non è vero? legate a ciò che chiamiamo l’opinione personale. Il risveglio è sempre qualcosa di immediato: ci risvegliamo. A cosa ci risvegliamo? A cose che non avevamo visto prima. L’insegnamento del Buddha ci indica delle cose che ci sono sempre state, ma che forse non avevamo mai visto prima.
E’ così che i concetti buddhisti ci possono aiutare. Possono risvegliarci ad alcune cose dell’esperienza umana che dobbiamo capire per poter essere liberi. Non sono idee che accantoniamo semplicemente fino al prossimo esame di buddhismo; sono principi e concetti attraverso i quali guardiamo la vita, come attraverso delle lenti. Prendete la struttura concettuale delle tre caratteristiche dell’esistenza: impermanenza, insoddisfazione e non-sé (anicca, dukkha, anatta) e indagate su come essa possa essere applicata alla vostra vita.
Per esempio, anatta, non-sé, riguarda l’insegnamento che questa mente e corpo non sono il sé. Ma se non sono questa mente, se non sono questo corpo, chi sono?
La mente comincia a interrogarsi. La domanda dirige la mente, comincia a risvegliarci. La bellezza dell’insegnamento del Buddha sta nel fatto che ammette il dubbio e anzi lo usa per liberare la mente.
O prendiamo l’insegnamento di anicca. “Ciò che ha la natura di nascere, ha la natura di cessare”. Cominciate a guardare la vita attraverso questo. Le esperienze della vita sono varie, perciò se sono sempre coinvolto in esperienze, mi confondo. Ma se uso questo insegnamento come una lente attraverso cui guardare, vedrò che ciò che ha la natura di sorgere ha anche la natura di cessare, e non è un fatto personale.
Comincio così a capire la natura della mia esperienza conscia, perché non sono più attaccato ad essa. Comincio a scoprire delle cose sull’esperienza che non avevo mai notato prima. Un pensiero di rabbia non è mio, è una condizione di natura; sorge e cessa. Forse allora posso abbandonare il senso di colpa, la rabbia e cose simili, poiché le vedo come non personali, non-sé. Ho scoperto qualcosa.
Spesso parliamo di dukkha, insoddisfazione, in termini di conflitto. Tutti abbiamo dei conflitti nella nostra vita, ma prima di venire a conoscenza di questi insegnamenti, cercavo sempre di liberarmi dei conflitti: per esempio cercando di mostrarmi gentile, se ero arrabbiato; cercando di liberarmi dell’avidità se ero ossessionato da essa; cercando di distrarre la mente se mi sentivo annoiato. C’era sempre quel vago tentativo di aggirare la situazione. Ma quando udii gli insegnamenti che dicono che il conflitto ha una causa, cominciai a indagare, a scoprire la causa della sofferenza.
L’illusione della nostra vita è che tendiamo a lasciarci affascinare da particolari esperienze. Se mi arrabbio perché l’autobus è in ritardo, penso che il conduttore abbia un problema, o che è un problema mio. Guardo sempre all’esterno per scoprire che problema c’è, ma non guardo alla rabbia di per sé.
L’insegnamento che pratichiamo è quello di diventare più obiettivi: “Va bene, questa è un’esperienza di rabbia, ma è qualcosa che sorge e cessa. Cosa causa la sofferenza in questa situazione?” Ci stiamo quindi distaccando dalla pretesa urgenza, complessità e attrattiva della nostra esperienza. In questo procedimento non ha importanza a causa di chi si è arrabbiati. La cosa importante è quella di guardare più in profondità questi basilari schemi mentali, per capirli.
Se abbiamo la volontà di andare all’interno dei nostri conflitti, di aprire la mente ad essi, allora scopriremo qualcosa, vero? Se invece sentenziamo che non dovremmo mai avere paura o rabbia, che dovremmo essere sempre intelligenti, belli e attraenti, quando si mostra l’opposto, tendiamo a cercare di respingerlo. Non c’è riflessione. C’è solo una specie di idea o di aspettativa a cui ci attacchiamo, e la frustrazione quando non si avvera. Ma se guardiamo in modo diverso, vedremo che l’esperienza è solo un processo, e che in questo processo c’è qualcosa che dobbiamo scoprire, qualcosa che dobbiamo osservare. Dobbiamo capire quale è la causa del conflitto.
Perciò, l’esperienza non è il problema, il desiderio non è il problema, la paura non è il problema, la noia non è il problema. Il problema è l’attaccamento ad essi.
Cosa significa questa parola ‘attaccamento’? Cos’è l’attaccamento? L’attaccamento è sempre collegato al senso di un “io”. Lasciar andare è una chiara accettazione di questo momento così com’è. E’ qualcosa che dobbiamo scoprire, che dobbiamo vedere molto chiaramente. Questa è la via dell’intuizione profonda.
Iniziare l’addestramento (bhavana) richiede sforzo. Certe volte questo ‘lasciar andare’ suona come una specie di compiacente accettazione. Mi arrabbio, do un pugno sul naso a qualcuno e mi dico: “Va tutto bene, lascia andare. Niente problemi!”, poi mi arrabbio di nuovo, do un pugno in un occhio a qualcun altro e dico: “Sono un tipo iroso. E’ proprio così che sono!”. Ma non va così, vi pare? Questo non significa ‘lasciar andare’. Ci vuole allenamento.
Ci sono due punti nell’addestramento che trovo molto utili: 1) vedere la causa e l’effetto, 2) vedere l’intenzione. Possiamo sempre riflettere sulla causa e l’effetto, chiedendoci, ad esempio: “Qual è il risultato della mia pratica? Da quanto tempo pratico e quale è stato il risultato della mia pratica? Sono più a mio agio nella vita di quanto fossi dieci anni fa? O un anno fa? O sono più teso?” Se sono più teso, bisogna che riveda la mia pratica.
Guardiamo la causa e l’effetto, chiedendoci semplicemente: “Qual è il risultato della mia vita, il modo come la vivo?”. Senza metterci alcun giudizio dicendo per esempio: “Ecco mi sto arrabbiando di nuovo”. Questo tipo di atteggiamento non ha niente a che fare con la riflessione.
Va notato invece: “Il mio modo di parlare, che risultato ha? Il modo in cui uso gli oggetti del mondo sensoriale – che siano idee contenute nei libri o un panino al formaggio -, che risultato porta? Qual è il risultato della mia meditazione? Che effetto ha sul corpo e sulla mente, e sull’ambiente che mi circonda? Queste sono le cose da contemplare. E’ semplice, ma importante vedere cosa funziona e cosa non funziona.
E’ per mancanza di comprensione che sbagliamo, per cui l’abilità consiste nel fare meno sbagli possibili, e non rifare mai lo stesso errore. Eppure certe volte siamo come ciechi e non vediamo perché c’è sofferenza nella nostra vita. E’ l’ignoranza che ci acceca. E allora, che fare? Ogni volta che c’è sofferenza o confusione, cominciamo ad osservare le linee generali della nostra vita. Se le guardiamo attentamente possiamo scoprirvi le cause della sofferenza, e incominciare a prendere la decisione di non permettere che queste cause interferiscano continuamente.
Mettiamo che io sia uno sempre pronto alle battute salaci. Vedo che gli altri si sentono umiliati e comincio a notare che non piace il mio modo di fare. Perciò rifletto: questo tipo di discorsi mi porta rimorso e dispiacere. Questo tipo di discorsi addolora gli altri. Poi vedo: ecco che risultati ottengo. Quindi che posso fare?
A questo punto è importante capire la differenza tra rimorso e senso di colpa. Il rimorso è una sana reazione a comportamenti, parole o pensieri sbagliati. E’ una risposta salutare perché mi dice: “E’ doloroso”. Ma molti di noi la mutano in senso di colpa, in cui c’è rimorso, ma anche un bel po’ di insana auto-flagellazione. Per questo il senso di colpa non è salutare.
A me sembra che il senso di colpa sia un modo di nascondere il dolore, coprendolo con pensieri di colpevolezza: “Sì, Viradhammo, sei proprio marcio fino in fondo!”. Ma questo è solo un punto di vista su se stessi. Cosa si prova quando andiamo direttamente al dolore? Se dico qualcosa di poco carino a qualcuno, e poi lo vedo ferito, penso: “Oh, ecco che ci sono ricascato!”, e c’è la stoccata, c’è il dolore. C’è il risultato della mia azione.
Ecco perché la meditazione è così importante; perché quando ci sediamo vediamo i risultati del nostro modo di vivere. Certe volte è difficile stare seduti mentre c’è sofferenza, perché cerchiamo di sfuggire alla sofferenza.. Ma se ci sediamo e sentiamo il dolore, senza giudicare – veramente sentire la sensazione fisica ed emotiva – allora possiamo contemplarlo: questo è il risultato di quello. Vediamo l’origine interdipendente, cioè che l’origine di questo sentimento dipende da una certa azione o condizione. Se riusciamo veramente a sentire il dolore che si imprime nella mente in modo intuitivo, radicale, capiamo allora che quando facciamo certe cose, ne soffriamo. Realizziamo così causa ed effetto.
E allora, che fare? Bene, possiamo usare pensieri salutari invece che pensieri di colpevolezza. Possiamo dirci: “D’ora in poi cercherò di non parlare più in questo modo”. Questo proposito possiamo farlo; una volta impiantato nella mente, questo proposito ci aiuta a renderci più consapevoli.
Perciò, cinque giorno dopo, quando dico la stessa cosa di nuovo, invece di pensare: “Ecco, di nuovo! Non sei affatto buono, sei marcio fino al midollo!”, torno indietro con la mente ed esamino la cosa: “Che risultato ho ottenuto? Fa male, fa veramente male! Lo sento”.
Quel dolore mi insegna che con il sorgere di questa condizione, abbiamo quella condizione, ma quando questa condizione non c’è, non ci sarà neanche quella. Se ripercorro questa situazione una, due, tre volte, con l’abituale conseguenza del dolore, alla fine comincerò a vedere il sorgere di quella condizione non salutare. Si è stabilizzata la consapevolezza.
La consapevolezza è molto potente. E’ come ripercorrere o ricordare. “Ah, c’è questo… l’impulso a dire battute salaci… ma non voglio reagire contro di esso, non voglio seguirlo”. Mi chiudo la bocca, e non lo dico. Allora viene la gioia: “Non l’ho detta! Non mi ha risucchiato.” Il cuore è libero da quella certa abitudine.
E in tutto ciò non vi è mai stato odio. C’è stata l’intenzione, ma non si è legata con il senso dell’io; non c’è stata l’attività del desiderio. Non sto cercando di diventare una persona che non fa queste cose. Non c’è l’attività dell’avversione. C’è consapevolezza, risveglio. Questo è l’addestramento: lavorare sempre con il risveglio e l’intenzione: voglio essere sveglio, non diventare qualcuno, solo sveglio e consapevole di come stanno le cose.
La purificazione, la terza considerazione che ritengo molto utile, è probabilmente la parte più difficile, perché è così noiosa. Naturalmente, io parlo solo della vita monastica, perché da laico non me ne sono mai veramente occupato. So che la vita monastica non è divertente, e neanche vuole esserlo. Sebbene mi piaccia quel senso di fratellanza e mi senta ispirato dai monaci, ci sono momenti in cui non mi piace la gente, in cui mi sento irritato, intimorito, o non ne posso più. Ma ho la libertà di osservare tutto ciò e questo è purificazione.
E’ qui che dobbiamo avere molta pazienza. Una delle mie riflessioni preferite è: “Infinita pazienza, illimitata compassione”. Questa è la pratica. Quando comincia a venire a galla tutto: quando cominciate a sentirvi seccato dalla casa, dalla famiglia, o stufo dei figli, è il desiderio che si manifesta come frustrazione. Ma se riusciamo a sopportare la frustrazione, a non giudicare, ne veniamo purificati. Perciò dobbiamo permettere che tutta quella roba affiori alla mente; dobbiamo permettere che tutti quei rifiuti diventino consci.
E’ per questo che gli insegnamenti su anatta e anicca, non-io e cambiamento, sono così importanti; perché se non avessimo questi insegnamenti, prenderemo tutto in modo personale. Ma più contempliamo questi insegnamenti e più vediamo che sono veri, più aumenta il coraggio di lasciare che queste cose affiorino alla coscienza. Più coraggio avremo nel lasciarle riaffiorare, più pazienza avremo nel sopportarle, più toccheremo la pace che sta nelle profondità della mente.
E’ una pace che non otteniamo diventando qualcuno. Anzi, esiste solo quando lasciamo andare, quando permettiamo che le cose cessino. Ecco perché parliamo tanto di cessazione.. Per esempio, quando mi sento irritabile, mi rammento degli insegnamenti: “Cambierà. Non farne un problema”.
Perciò lascio che esista questa irritabilità; ciò non vuol dire indulgenza verso di essa o che la scarico sugli altri monaci o che la nego. Riconosco semplicemente che ciò che ha la natura di sorgere ha anche la natura di cessare. Posso risvegliarmi a questo, e poi cessa. Lo vedo sempre di più e diventa una via di coraggio e fiducia. C’è la fiducia nel lasciare che le cose siano, nel renderle completamente consce: lasciare cioè che la paura, la rabbia o qualsiasi altra cosa diventino perfettamente consce.
La tendenza a reprimere le esperienze spiacevoli è molto potente. Ci facciamo prendere dal panico per certe condizioni ed esse poi diventano come una minaccia. Cerchiamo di cacciarle, ma ritornano. Perciò se troviamo che certe condizioni continuano a riaffiorare nella nostra vita, chiediamoci: “Sto veramente permettendo che diventino consce o le sto respingendo?” Questo equilibrio tra repressione e indulgenza è difficile da trovare, sebbene in effetti sia molto semplice risvegliandosi solo al modo in cui sono ora le cose.
E’ una pratica che si svolge momento per momento; perciò quando sorge la domanda: “Sto reprimendo o indulgendo?” vedetela come un dubbio, una semplice condizione nella mente. “Così è ora, così sento ora”: risvegliarsi, rendere le cose consce. Notate che in tutto ciò non c’è desiderio, non c’è avversione. Non è legato al desiderio di diventare qualcun altro o di liberarci di qualcosa. Non c’è un movimento di fuga da questo momento verso un altro. E’ fuori dal tempo. E’ immediato. E’ il risveglio qui e ora.
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Ajahn Viradhammo, nato in Germania da famiglia lettone ma canadese di adozione, è monaco della tradizione della foresta dal 1974. E’ stato uno dei primi discepoli occidentali di Ajahn Chah e ha fondato il monastero Bodhinyanarama in Nuova Zelanda. Dal 2006 si occupa nel fondare un nuovo monastero in Canada, vicino ad Ottawa (www.tisarana.ca).