di Gino
Vorrei provare ad usare, a parziale consuntivo di questo ritiro, una metafora escursionistica, quanto mai azzeccata a mio parere, visto che Ajahn Chandapalo e Ajahn Suvaco stanno per andare a trascorrere l’ultimo mese di ritiro nella kuti a 2000 metri in Val d’Aosta.
La corriera (i Monaci della foresta, l’insegnamento del Buddha) ci ha portati all’inizio del sentiero: si tratta ora di incamminarsi, di percorrerlo, e nessuno può farlo al posto nostro.
Dunque ci si incammina, ognuno con il proprio zaino, più o meno pesante, più o meno adatto alle nostre forze, ed è inutile, anzi controproducente, attendere, stare fermi illudendosi che lo zaino si alleggerisca, o pensare che non è il caso di muoversi prima di aver lasciato andare qualcosa.
Il rischio è che si faccia buio prima di aver fatto un solo passo nella giusta direzione. Altrettanto inutile sarebbe continuare a consultare la mappa (libri, discorsi, ecc.), e poi noi sappiamo che “la mappa non è il territorio”.
Dunque l’atteggiamento giusto è quello di mettersi in cammino, cercando magari di liberarsi di qualcosa lungo il percorso. Già arrivare alla fine di un ritiro come questo con uno zaino che invece che, poniamo, 12 Kg ne pesasse 11,50 non sarebbe cosa da poco.
È in ogni caso una sensazione nota a tutti coloro che amano camminare in montagna quella della straordinaria sensazione di leggerezza che si prova quando, nelle condizioni e al momento giusto, si riesce a togliersi per un po’ lo zaino dalle spalle e a riposare. C’è da stare attenti, perché si rischia di cadere o perdere l’equilibrio, da quanto ci si sente leggeri: sembra di poter volare.
Naturalmente non lo si può fare ovunque: sarebbe rischioso tentare di farlo in un punto del sentiero molto ripido e stretto, con una parete di roccia da un lato e un profondo burrone dall’altro. Sono i momenti in cui si vedono più chiaramente i vantaggi di uno zaino più leggero, ma forse non i più adatti ad alleggerirlo veramente. Bisogna saper attendere il momento opportuno, quando magari si è raggiunta una piccola radura, al riparo dai venti che spesso soffiano ad alta quota.
Allora si sperimenta la verità che la nostra condizione naturale non è quella di camminare con uno zaino sulle spalle. Già solo questa consapevolezza reca con sé un grande beneficio, quando riprendiamo il nostro zaino e continuiamo il cammino.
Quanto poi a togliere o ridurre il superfluo di cui si è carichi, questa è un’altra faccenda. Dico che è un’altra faccenda perché, avendo raggiunto una certa facilità ad “attingere” al samadhi (quanto mi piacciono alcuni termini usati dai Maestri), ho cominciato a cercare di guardare il contenuto dello zaino, per vedere se era possibile lasciare giù qualcosa. Lì mi sono accorto che ad alcune mie avversioni, attrazioni o aspirazioni sono davvero molto attaccato, e forse più di prima. Se cioè in alcune occasioni mi sembra di averne scorto il carattere impermanente, insoddisfacente e illusorio, pure non riesco neanche a pensare di rinunciarvi, anche se ne avverto il peso.
I Maestri consigliano di perseverare nella contemplazione e nell’investigazione, perché il momento del “lasciar andare” arriva naturalmente da sé, man mano che si sviluppano la saggezza e la consapevolezza necessarie, non lo si può forzare.
Dunque direi che ciò che ho lasciato andare è forse un paio di calzini bucati, e che il mio zaino invece che 12 Kg ne pesa 11,80. Ho letto in questi giorni in un libro di Ajahn Sumedho che di questo risultato devo ritenermi soddisfatto…
I vecchi calzini bucati sono il fastidio e la rabbia per chiacchiere e gesti inutili di altri, che secondo me disturbavano la mia concentrazione e la mia pratica, che mi portavo per un po’ anche nella kuti, dove nessuno mi disturbava… Ho cominciato a trovare veramente ridicolo questo mio atteggiamento: ma come? Grazie al Sangha ho la fortuna di poter praticare in una kuti calda, asciutta e silenziosa, e invece di approfittarne appieno coltivo pensieri che mi portano ancora di più all’io sono-io non sono, io penso-io non penso, io voglio-io non voglio?
Ho provato allora ad essere attento al momento in cui il fastidio sorgeva, a vedere come fosse tutto nella mia mente e che si poteva lasciare lì dov’era. Non molti giorni dopo aver cominciato a praticare questa attenzione all’avversione, senza abbandonarmi ad essa, con mia grande sorpresa, in maniera del tutto inattesa, non ho più provato alcun fastidio! L’ho vissuta davvero come una liberazione.
Per le cose più pesanti che mi porto dietro invece (e in un ritiro così intenso si va ben oltre l’increspatura della superficie: capita che emergano aspetti, questioni, ricordi davvero profondi e remoti, persino sconosciuti), sinceramente non so se sarò capace di lasciare che questo movimento bellissimo accada.