Un’introduzione alla vita e agli insegnamenti di Ajahn Chah
di Ajahn Amaro
Una sera nel nord-est della Thailandia
La notte sta scendendo rapidamente. La foresta risuona dell’ondoso brusio di innumerevoli grilli e dell’inquietante e crescente gemito delle cicale tropicali. Poche stelle si intrufolano fiocamente tra le cime degli alberi. Nella crescente oscurità, un paio di lanterne a cherosene producono una pozza di caldo chiarore, illuminando l’area all’aperto sottostante una capanna issata su pali di legno. Sotto il bagliore, due dozzine di persone sono raccolte attorno ad un piccolo monaco ma di solida costituzione, che siede a gambe incrociate su una grande sedia di vimini. Una pace vibrante è nell’aria. Il venerabile Ajahn Chah sta insegnando.
Il gruppo riunito è per alcuni aspetti eterogeneo. Accanto ad Ajahn Chah – o Luang Por, venerabile padre, come è affettuosamente chiamato dai suoi allievi – vi sono i bhikkhu, ossia i monaci, ed i novizi; la maggior parte di loro è thailandese o laotiana, ma ve ne sono alcuni dalla pelle chiara: un canadese, due statunitensi, un giovane australiano e un inglese. Di fronte all’Ajahn siede una ben curata coppia di mezz’età, lui in giacca e pantaloni e lei ingioiellata e acconciata alla moda; stanno cogliendo l’opportunità – lui è un membro del parlamento e proviene da una lontana provincia, ed ora si trova in zona per questioni ufficiali – per venire a porgere i loro omaggi ad Ajahn Chah e per fare offerte al monastero.
Un po’ più indietro, da entrambi i lati, è sparso un consistente gruppo di abitanti dei villaggi nei dintorni. Le magliette e le bluse che indossano sono usurate e la pelle delle loro magre membra è scura e bruciata dal sole, aggrinzita, cotta come la povera terra di questa regione. Luang Por, da bambino, con alcuni di loro aveva giocato, catturato rane e si era arrampicato sugli alberi, altri li aveva aiutati – ed era stato da loro aiutato – prima di diventare bhikkhu quando giungeva l’annuale turno di piantare il riso e poi di mieterlo nei campi alla fine del monsone.
Da un lato, nei pressi del retro, si trova una professoressa di Friburgo, giunta in Thailandia per studiare il buddhismo con un’amica del suo gruppo di Dharma; una monaca statunitense della sezione femminile del monastero è venuta con lei per guidarla tra i sentieri della foresta e per fungere da traduttrice. Accanto a loro siedono tre o quattro altre monache più anziane del monastero, che hanno deciso di cogliere l’opportunità per venire a chiedere consiglio a Luang Por su un problema della comunità femminile e per domandargli di visitare – sono già passati molti giorni dall’ultima volta che lo ha fatto – il lato della foresta nel quale dimorano e di offrire un discorso di Dhamma a tutto il loro gruppo. Sono rimaste già per un paio d’ore e perciò hanno offerto i loro omaggi e, insieme agli altri visitatori provenienti dalla sezione monastica femminile, preso congedo: devono tornare prima che sia buio e sono già un po’ in ritardo.
Sempre nei pressi del retro, quasi sul limitare della pozza di luce, siede con il volto severo un uomo sulla trentina. Per metà è girato di lato, come se si sentisse a disagio e quasi che la sua presenza fosse provvisoria. È un uomo duro del luogo, un nak leng. Profondamente sprezzante nei riguardi di tutto quanto possa essere religioso, seppur a denti stretti nutre tuttavia per Luang Por un rispetto che nasce tanto dalla reputazione di imperturbabilità, forza e resistenza di quest’ultimo quanto dal fatto che se i fedeli si recano da lui è perché si tratta di un qualcosa di genuino: «nell’intera provincia, è probabilmente l’unico cui valga la pena di prostrarsi».
È arrabbiato, sconvolto, è infelice. Una settimana prima, il suo amato fratello minore, che faceva parte della sua banda e insieme al quale aveva superato mille difficoltà, si era ammalato di malaria cerebrale ed era morto in pochi giorni. Da allora era come se una lancia gli aveva trafitto il cuore e nulla al mondo aveva più senso o sapore. «Se fosse stato accoltellato, lo avrei almeno potuto vendicare. Che posso fare? Rintracciare la zanzara che lo ha punto e ucciderla?». Un amico gli ha detto: «Perché non andare a trovare Luang Por Chah?». Così, eccolo qui.
Quando Luang Por giunge ad un punto importante del suo discorso fa un ampio sorriso e alza un bicchiere per illustrare la sua analogia. Aveva notato la rigida e desolata figura del giovane nell’ombra. Come se stesse riavvolgendo il filo di una canna da pesca per catturare un pesce forte e scaltro, presto riesce in un qualche modo a convincerlo a venire in prima fila. Subito dopo, il nak leng piange come un bambino, mentre Luang Por gli tiene la testa fra le mani. L’uomo ride della sua stessa arroganza ed auto-ossessione, e capisce di non essere stato il primo o il solo ad avere perso una persona cara: le lacrime di rabbia e dolore si sono trasformate in lacrime di sollievo.
Tutto ciò avviene alla presenza di venti estranei, ed ora l’atmosfera è di sicurezza e fiducia. Perché, sebbene le persone qui riunite provengano da differenti ceti sociali e da diverse parti del mondo, sono tutte accomunate in questo momento e in questo luogo dall’essere saha-dhammika, “compagni di viaggio nel Dhamma” o, per usare un’altra espressione vernacolare buddhista, “tutti fratelli e sorelle nella vecchiaia, malattia e morte” e appartengono perciò alla stessa famiglia.
Questo genere di situazioni si verificò innumerevoli volte durante i trent’anni d’insegnamento di Ajahn Chah. È significativo che sia nelle più lunghe esposizioni legate ad occasioni formali sia in dialoghi di tal genere, all’impronta, il fluire dell’insegnamento e la scelta di coloro ai quali esso dovesse essere specificamente indirizzato fossero del tutto spontanei e imprevedibili. Per molti aspetti, quando Ajahn Chah insegnava era come un maestro musicista, egli guidava il flusso dell’armonia e la produceva in assoluta aderenza alle caratteristiche e agli stati d’animo delle persone con le quali si trovava. Integrava le loro parole, sentimenti ed interrogativi nel crogiolo del suo cuore e lasciava che le risposte sgorgassero liberamente.
Quale che fosse il genere della folla che si raccoglieva attorno a lui, con identica impassibilità poteva usare come esempio i modi giusto e sbagliato di sbucciare un mango e, subito dopo, descrivere la natura della Realtà Ultima. Poteva essere burbero e freddo con le persone tronfie e, il momento successivo, incantevole e gentile con quelle timide; oppure, raccontare una barzelletta con un vecchio amico del villaggio e, poi, guardare negli occhi un corrotto colonnello di polizia e parlargli con sincerità della centrale importanza dell’onestà nel Sentiero del Buddha. Poteva rimproverare un bhikkhu perché indossava l’abito in modo sciatto e poi, nel volgere di pochi minuti, lasciare che la sua stessa veste, scivolatagli dalla spalla, scoprisse la sua pancia tonda.
Una domanda intelligente posta da un accademico alla ricerca di discussioni filosofiche di alto livello per mostrare il suo acume, facilmente induceva Luang Por a rimuoversi la dentiera ed a passarla all’assistente bhikkhu affinché gli desse una pulita. L’interlocutore avrebbe così dovuto superare la prova: il grande maestro rispondeva al suo profondo quesito con le ampie labbra ripiegate all’indietro, sulle gengive, prima che la dentiera, ripulita, fosse rimessa al suo posto…
La maggior parte delle volte Ajahn Chah impartiva i suoi insegnamenti in riunioni spontanee, ma offriva molto generosamente la sua saggezza anche in occasioni più formali, come dopo la recitazione delle regole per i bhikkhu, oppure all’intera assemblea di laici e monaci nella notte di settimanale osservanza lunare. Ovviamente, sia che si trattasse di insegnamenti per il primo o per il secondo tipo di riunioni, l’Ajahn non pianificava mai nulla. Non una sola sillaba di ciò che insegnava era mai annotata prima che iniziasse a parlare. Pensava che questo fosse un principio estremamente importante, perché il compito dell’insegnante consisteva nel togliersi di mezzo, e lasciare che il Dhamma sorgesse in accordo con le necessità del momento: «se non è vivo nel presente, non è Dhamma», diceva.
Una volta invitò il suo primo discepolo occidentale, Ajahn Sumedho, a tenere un discorso all’assemblea di monaci e di laici del monastero principale, il Wat Pah Pong. Fu una prova traumatizzante; non solo parlare a circa duecento persone abituate all’alto standard di arguzia e di saggezza di Ajahn Chah, ma per di più in thailandese, una lingua che Ajahn Sumedho aveva iniziato ad imparare solo tre o quattro anni prima. Nella mente dell’Ajahn occidentale si affollarono idee e paure. In quei giorni stava leggendo testi riguardanti i Sei Regni della cosmologia buddhista e i correlati stati psicologici: l’ira e i regni infernali, la felicità dei sensi e i regni paradisiaci, e così via. Decise che sarebbe stato un buon argomento e pensò al modo opportuno di esprimere tutte le sue idee.
Quando giunse la notte fatidica, Ajahn Sumedho tenne il suo discorso e ritenne che fosse andata piuttosto bene; il giorno seguente molti membri del Sangha si recarono da lui per dirgli quanto avessero apprezzato le sue parole. Si sentì sollevato e abbastanza soddisfatto di se stesso. Un po’ di tempo dopo, in un momento di tranquillità, Ajahn Chah catturò la sua attenzione, lo fissò negli occhi e gli disse con gentilezza: «Non farlo mai più».
Questo modo di insegnare non era tipico solamente di Ajahn Chah, ma era adottato da tutta la cosiddetta Tradizione Thailandese della Foresta. Perciò, può essere utile descrivere le caratteristiche e le origini di questo lignaggio, per tributare un po’ più di significato al contesto dal quale scaturì la saggezza di Ajahn Chah.
INDICE
- Una sera nel nord-est della Thailandia
- Le cose essenziali: visione, insegnamento e pratica
- Le Quattro Nobili Verità
- La legge del Kamma
- Tutto è incerto
- Scelta espressiva: “si” o “no”
- L’enfasi sulla Retta Visione e sulla Virtù
- Metodi di addestramento
- Insegnare ai laici, insegnare ai monaci
- Contrastare la superstizione
- Umorismo