Traduzione dal pāli e spiegazione dei termini di Giuliano Giustarini. Grazie a lui da tutti noi.
La pagina verrà aggiornata di volta in volta appena disponibili nuove sezioni.
(Scarica l'audio ) – (scarica il testo)
(yo so) bhagavā arahaṃ sammāsambuddho
Colui che è il Bhagavant, l’Arahant, il Perfettamente Risvegliato,
yo e so sono entrambi aggettivi/pronomi relativi, declinati nella prima vibhatti singolare, o nominativo, così da poter essere usati come soggetti nelle frasi non passive. Nella frase che segue è sottointeso il verbo essere, come accade in pāli quando non appare nessun verbo.
bhagavā è una prima vibhatti singolare, più o meno corrispondente al nominativo; il termine è spiegato nei commentari come “colui che possiede fortuna o ricchezze” o “colui che ha distrutto [le contaminazioni]” o “colui che si è liberato dal divenire [nel saṃsāra]”. È usato come alta forma di rispetto.
arahaṃ è la prima vibhatti singolare (nominativo) di arahant o arhat. Deriva dal verbo arahati e letteralmente significa “degno”. Non solo i commentari, ma già il Buddha nei Sutta lo spiega in riferimento a una parola apparentemente simile, ārāka (lontano, alla larga da, distante): un arahant è un praticante per cui i dhamma nocivi (akusala), cause di sofferenza (dukkha), sono ormai lontani. È un termine usato per chiunque abbia raggiuto la liberazione ultima, incluso il Buddha.
sammāsambuddho è la prima vibhatti singolare (nominativo) di sammāsambuddha, un composto basato sul participio passato buddha (del verbo bujjhati: “svegliarsi” ma anche “capire, comprendere, sapere”). Significa “perfettamente/bene/appropriatamente/nel modo giusto (sammā) completamente (saṃ) risvegliato (buddha)”. Per “risvegliato” si intende risvegliato alla realtà così com’è, che conosce, comprende la realtà così com’è. Un sammāsambuddha non è solo un arahant, un liberato, ma è un tathāgata, ovvero un buddha che mette in moto la ruota del Dhamma. Il Buddha Siddhattha Gotama è il sammāsambuddha o tathāgata di questa era.
svākkhāto yena bhagavatā dhammo
Il Dhamma ben esposto dal Bhagavant
svākkhāto è composto dal prefisso su (bene) e il participio passato passivo akkhāto (del verbo akkhāti: esporre, annunciare, proclamare, spiegare, illustrare), declinato in prima vibhatti/nominativo, riferito al Dhamma.
yena qui è un aggettivo dimostrativo, declinato in terza vibhatti e concordante con bhagavatā, per indicare il soggetto della frase passiva. Si potrebbe tradurre con “questo” o, in questo come in altri casi, semplicemente lasciare non tradotto.
bhagavatā è la terza vibhatti singolare di bhagavant (vedi sopra) con funzione (kāraka) di agente/soggetto (kattar) della frase.
dhammo è la prima vibhatti singolare (nominativo) di dhamma. Il termine può assumere vari significati a seconda dei contesti. In questo caso si riferisce soprattutto agli insegnamenti del Buddha.
supatipanno yassa bhagavato sāvakasaṅgho
E il Saṅgha dei discepoli del Bhagavant;
supaṭipanno è la prima vibhatti singolare (nominativo) del participio passato paṭipajjati (intraprendere, percorrere un sentiero) preceduto dal suffisso su. Come spesso avviene in pāli, i participi passati possono essere anche attivi (come in buddha). In questo caso si riferisce al Saṅgha dei discepoli del Buddha che ha ben intrapreso e ben percorre (o ha ben percorso) il sentiero (paṭipadā, sinonimo di magga) indicato dal Buddha.
yassa è la sesta vibhatti singolare (genitivo) delll’aggettivo dimostrativo ya, che concorda con bhagavato. In questo e in altri casi non è necessario tradurlo.
bhagavato è la sesta vibhatti singolare (genitivo) di bhagavant (vedi sopra).
sāvaka-saṅgho è un composto (genitivo tappurisa, da leggere come sāvakānaṃ saṅgho), di cui saṅgho è la prima vibhatti singolare, nominativo. Il termine sāvaka deriva dal verbo suṇāti/suṇoti (udire, ascoltare); letteralmente significa “uditore” e indica i discepoli del Buddha che hanno prestato ascolto ai suoi insegnamenti. Nelle scritture un buon discepolo viene spesso chiamato bahussuta (bahu-suta), ovvero uno che ha udito molto e conosce bene gli insegnamenti del Buddha. Generalmente, gli incipit dei discorsi del Buddha (i Sutta) presentano il participio passato del verbo suṇāti/suṇoti: evaṃ me sutaṃ, “Così ho udito” (lett. “Così è stato udito da me”). Va ricordato che tutti questi termini sono un chiaro riferimento alla tradizione orale del Dhamma.
tammayaṃ bhagavantaṃ sadhammaṃ sasaṇghaṃ
Tale Bhagavant, tale Dhamma, tale Saṅgha,
tammayaṃ è composto dal pronome taṃ (questo) e maya (fatto di, che consiste di, somigliante a) creando insieme un significato specifico: “tale, di questo genere, di questo livello, uguale a questo”. Può anche convogliare un senso di devozione, desiderio, anche in senso negativo (cioè legato alla sete-avidità, taṇhā), sebbene non sia questo il caso. È declinato in seconda vibhatti (accusativo) e concorda con tutti e tre i termini seguenti.
bhagavantaṃ seconda vibhatti (accusativo) di bhagavant (vedi sopra per la spiegazione del termine).
sadhammaṃ seconda vibhatti (accusativo) di dhamma, termine maschile polisemantico, qui ancora nel significato visto sopra. Il prefisso sa– sta per saṃ (con, insieme a), funzionando come la congiunzione “e” o come virgola tra i tre termini.
sasaṇghaṃ seconda vibhatti (accusativo) di saṅgha.
imehi sakkārehi yathārahaṃ āropitehi abhipūjayāma
Riveriamo appropriatamente presentando questi onori
imehi terza vibhatti plurale dell’aggettivo dimostrativo ayaṃ (questo), caso strumentale per un complemento di mezzo. Concorda con sakkārehi.
sakkārehi terza vibhatti plurale di sakkāra, sostantivo che deriva dal verbo sakkaroti (sat-kṛ: onorare, omaggiare, trattare con rispetto).
yathārahaṃ nipāta o avyaya, ovvero una particella indeclinabile; nello specifico, un avverbio dal significato “appropriatamente”, nel senso letterale di “così come meritano” (yathā-arahaṃ).
āropitehi terza vibhatti plurale di āropita, che è participio passato del verbo āropeti, a sua volta causativo di āruhati. Il verbo āropeti letteralmente significa innalzare, è qui dovrebbe essere inteso nel senso di offrire. La frase intera dovrebbe tradursi più o meno “riveriamo appropriatamente con questi onori presentati”. Precedentemente l’avevo tradotta “Riveriamo appropriatamente con questi onori e dediche”, in linea con altre traduzioni, ma l’assenza della congiunzione ca o di un suo equivalente suggerisce che āropitehi qualifichi sakkārehi e non sia invece un elemento separato nella frase.
abhipūjayāma può indicare sia un presente indicativo sia un imperativo (coniugato nell’uttamapurisa bahuvacana che corrisponde alla prima persona plurale) del verbo pūjeti/pūjayati. Anche la traduzione in italiano lascia aperte le due interpretazioni. Il verbo pūjeti (10a classe), traducibile con “offrire”, è collegato al sostantivo femminile pūjā, riferito alla pratica di offerta sacra, comune a tutta la religiosità indiana e alle tradizioni basate sulla religiosità indiana.
sādhu no bhante Bhagavā suciraparinibbutopi
Sarebbe bene per noi, o Bhante, se il Bhagavant, sebbene sia trascorso moltissimo tempo da quando raggiunse il parinibbāna,
sādhu (buono, prezioso) è un aggettivo che viene usato per approvazione, per riflessioni su cosa sarebbe bene fare oppure, seguito da un verbo coniugato all’imperativo, per presentare richieste. Qui è quest’ultimo caso: si chiede al Buddha, sebbene egli sia da molto tempo morto e completamente estinto (parinibbuta), di accogliere le offerte.
no è una particella pronominale usata per alcune vibhatti del plurale del pronome personale ahaṃ (io). Considerando il contesto, qui va presa come una quarta vibhatti singolare, un dativo (“per noi”).
bhante è un titolo onorifico usato anche oggi.
bhagavā è la prima vibhatti singolare di bhagavant (vedi sopra).
suciraparinibbutopi si può spezzare in su-cira-parinibbuto ’pi. Il termine pi, per api, significa “anche”, qui nel senso di “anche se”, “sebbene”, formulando la premessa che il Bhagavant, “pur estinto…” o “sebbene estinto…”; parinibbuto (1a vibhatti sing.) è un participio passato / aggettivo che a volte indica il raggiungimento del nibbāna, la liberazione ultima, in questa vita; altre invece si riferisce alla morte di un liberato (parinibbāna) il quale, avendo esaurito anche gli aggregati (khandha) della sua ultima esistenza, non è più soggetto a rinascite (jāti) ed è quindi estinto nella pace del nibbāna; cira è un avverbio che significa “da molto tempo” e su in questo caso vi pone un’ulteriore enfasi.
pacchimājanatānukampa-mānasā
con cuore compassionevole verso le generazioni future,
pacchimājanatānukampamānasā è un composto che si spezza così: pacchimā-janatā-anukampa-mānasā. Dei termini contenuti, mānasā è la quinta vibhatti di mānasa e qui funziona da complemento di mezzo. Il termine mānasa deriva da mano (mente) e non da māna (presunzione): significa intenzione ed è considerato sinonimo di hadaya (cuore). Il termine anukampa è un sinonimo di karuṇā (compassione) e la definisce: il verbo kampati significa “tremare”, “essere scossi”, mentre il prefisso anu significa “verso”, “dietro a” o “immediatamente dietro a”, “seguendo”. Il termine anukampā quindi indica l’essere mossi verso qualcuno, verso il suo bene, volersene prendere cura, quindi avere un’intenzione compassionevole nei suoi confronti. Il termine janatā (imparentato al greco γένος e al latino gens) indica le persone, le genti; in questo caso, preceduto dall’aggettivo pacchima (“ultimo”, “altro”, qui nel senso di “successivo”, “che viene dopo”), si riferisce alle generazioni future, quelle che seguono la morte del Buddha. Il concetto dietro questa richiesta è quello di gārava, un sostantivo che deriva dall’aggetivo garu (“pesante”, “degno di rispetto”, corrispondente al sanscrito guru usato anche per “maestro”); gārava è il mostrare rispetto, reverenza, che secondo il Buddha conduce a felicità, al punto che lui stesso, sebbene fosse già risvegliato, a un certo punto decide di praticare gārava nei confronti del Dhamma. In questo canto, ci si appella alla compassione del Buddha affinché sia possibile praticare gārava nei suoi confronti nonostante egli non sia più una presenza, quindi un possibile oggetto di gārava. Come dire che tale è la compassione del Buddha da poter garantire questa forma di felicità malgrado le condizioni non sembrino permetterlo.
ime sakkāre duggatapaṇṇakārabhūte paṭiggaṇhātu
accogliesse questi onori e umili doni
ime è una seconda vibhatti plurale (accusativo) dell’aggettivo/pronome dimostrativo ayaṃ (questo). Concorda con sakkāre.
sakkāre è una seconda vibhatti plurale (accusativo) di sakkāra (vedi sopra per il significato). È il kamma (complemento oggetto) retto dal verbo paṭiggaṇhātu.
duggatapaṇṇākārabhūte è un cosiddetto composto aggettivale (kammadhāraya) in cui bhūte è l’accusativo plurale del participio passato di hoti/bhavati. Il termine paṇṇākāra è anch’esso un composto che nell’insieme significa donazione, regalo, offerta, ma anche “messaggio) (paṇṇa significa “foglia” e derivatamente “lettera”, messaggio scritto). Il termine duggata (du-gata = “andato male”, “andato a finir male”) significa povero, sfortunato. Quindi qui si tratta di miseri, umili doni.
paṭiggaṇhātu è l’imperativo di paṭiggaṇhāti, che significa “prendere, accettare, ricevere”. Come anche in italiano, in pāli l’imperativo è usato anche per richieste e preghiere.
amhākaṃ dīgharattaṃ hitāya sukhāya
per il nostro bene e per la nostra felicità a lungo termine.
amhākaṃ è la sesta vibhatti (genitivo) plurale di ahaṃ (io), quindi significa “di noi”, “nostro”.
dīgharattaṃ è un composto kammadhāraya in funzione avverbiale. Il termine ratta letteralmente significa “notte” ma è usato anche e spesso come sinonimo di “tempo”. L’aggettivo dīgha significa “lungo”.
hitāya è la quarta vibhatti singolare (dativo) di hita, che vuol dire “benessere”, “beneficio”.
sukhāya è la quarta vibhatti singolare (dativo) di sukha, che significa “piacere” o “felicità”.
arahaṃ sammāsambuddho bhagavā
buddhaṃ bhagavantaṃ abhivādemi.
L’Arahant, il Perfettamente Risvegliato, il Bhagavant: Saluto il Buddha, il Bhagavant.
Questo pada è formato da tre termini, il cui significato è stato già spiegato sopra, declinati in prima vibhatti singolare (nominativo). Nello schema delle funzioni (kāraka) associate alle desinenze (vibhatti) dei casi, questi tre termini sono chiamati paccatta, ovvero si reggono da soli e pertanto si trovano in prima vibhatti (come avviene con i titoli dei testi per esempio). Alternativamente, si può considerarla come una frase in cui il verbo essere è sottointeso e si leggerebbe: “[Egli è] L’Arahant, il Perfettamente Risvegliato, il Bhagavant”.
arahaṃ è la prima vibhatti singolare (nominativo) di arahant o arhat. Deriva dal verbo arahati e letteralmente significa “degno”.
Non solo i commentari, ma già il Buddha nei Sutta lo spiega in riferimento a una parola apparentemente simile, ārāka (lontano, alla larga da, distante): un arahant è un praticante per cui i dhamma nocivi (akusala), cause di sofferenza (dukkha), sono ormai lontani. È un termine usato per chiunque abbia raggiuto la liberazione ultima, incluso il Buddha.
I termini buddhaṃ e bhagavantaṃ sono due seconde vibhatti (accusativi), con funzione (kāraka) di complemento oggetto (kamma) retto dal verbo che segue.
Il verbo abhivādemi è il presente indicativo, pacchima-purisa (“ultima” persona, cioè terza, corrispondente alla prima in italiano), eka-vacana (singolare) di abhivādeti, un verbo della decima classe che significa “salutare”, “onorare”, “accogliere”.
(svākkhāto) bhagavatā dhammo
dhammaṃ namassāmi
Il Dhamma, ben esposto dal Beato: Omaggio il Dhamma. [inchino]
Il termine svākkhāto (su-akkhāto) è il participio passato passivo di akkhāti (“annunciare, proclamare, esporre”); è declinato in prima vibhatti e concorda con dhammo.
Il termine bhagavatā è una terza vibhatti singolare con funzione (kāraka) di agente/soggetto (kattar) della frase.
Il termine dhammo è una prima vibhatti singolare, che nelle frasi al passivo, come in questo caso, indica il complemento oggetto (kamma).
dhammaṃ è una seconda vibhatti, complemento oggetto (kamma) del verbo namassāmi.
Il termine namassāmi è quella che corrisponde in italiano alla prima persona singolare del presente del verbo namassati, “onorare, omaggiare, venerare” (da namati che significa “piegarsi”, “inchinarsi”). Il corrispondente sostantivo neutro namo (omaggio, venerazione) lo ritroviamo nella formula dei canti namo tassa… e nel famoso saluto derivato dal sanscrito namas-te (o namaskāra).
(supaṭipanno) bhagavato sāvakasaṅgho
saṅghaṃ namāmi
[inchino]
Il Saṅgha dei discepoli del Bhagavant, che percorrono rettamente il sentiero:
Mi inchino al Saṅgha.
[inchino]
supaṭipanno è la prima vibhatti singolare (nominativo) del participio passato paṭipajjati (intraprendere, percorrere un sentiero) preceduto dal suffisso su (“bene”, “felicemente”, “correttamente”, “abilmente”, “meticolosamente” etc.). Come spesso avviene in pāli, i participi passati possono essere anche attivi (come in buddha). In questo caso si riferisce al Saṅgha dei discepoli del Buddha che ha ben intrapreso e ben percorre (o ha ben percorso) il sentiero (paṭipadā, sinonimo di magga) indicato dal Buddha.
bhagavato è la sesta vibhatti singolare (genitivo) di bhagavant – “colui che possiede fortuna o ricchezze” o “colui che ha distrutto [le contaminazioni]” o “colui che si è liberato dal divenire [nel saṃsāra]”.
sāvaka-saṅgho è un composto (genitivo tappurisa, da leggere come sāvakānaṃ saṅgho), di cui saṅgho è la prima vibhatti singolare, nominativo. Il termine sāvaka deriva dal verbo suṇāti/suṇoti (udire, ascoltare); letteralmente significa “uditore” e indica i discepoli del Buddha che hanno prestato ascolto ai suoi insegnamenti. Nelle scritture un buon discepolo viene spesso chiamato bahussuta (bahu-suta), ovvero uno che ha udito molto e conosce bene gli insegnamenti del Buddha. Generalmente, gli incipit dei discorsi del Buddha (i Sutta) presentano il participio passato del verbo suṇāti/suṇoti: evaṃ me sutaṃ, “Così ho udito” (lett. “Così è stato udito da me”). Va ricordato che tutti questi termini sono un chiaro riferimento alla tradizione orale del Dhamma.
saṅghaṃ è una seconda vibhatti, complemento oggetto (kamma) del verbo namāmi.
namāmi è un uttama-purisa (ultima o terza persona) ekavacana (singolare), che in italiano corrisponde alla prima singolare, del vattamāna (presente indicativo) di namati (“piegarsi”, “inchinarsi”).
(handa mayaṃ buddhassa bhagavato
pubbabhāganamakāraṃ karomase)
(Ora rendiamo questo tributo preliminare al Buddha, al Bhagavant)
handa è un nipāta (indeclinabile) che indica un’esortazione, un invito, un po’ come “orsù!”, “forza!”. Qui è tradotto con “ora”, chiaramente in senso di invito e non meramente temporale.
mayaṃ è la prima vibhatti (nominativo) plurale del pronome personale ahaṃ (io).
buddhassa è la quarta vibhatti singolare (dativo) di buddha, participio passato di bujjhati, “svegliarsi”, “comprendere”.
bhagavato è la quarta vibhatti singolare (dativo) di bhagavant – “colui che possiede fortuna o ricchezze” o “colui che ha distrutto [le contaminazioni]” o “colui che si è liberato dal divenire [nel saṃsāra]”.
pubbabhāganamakāraṃ è un composto scomponibile in pubba-bhāga-namakāraṃ, in cui namakāraṃ è una seconda vibhatti a indicare il kamma (complemento oggetto) retto dal verbo karoma che segue. Il termine namakāra, equivalente al sanscrito namaskāra e al hindi namaskār, significa “omaggio”, “tributo di omaggio”, “reverenza”. L’aggettivo pubba (sanscrito pūrva) significa “precedente”, “che viene prima” o semplicemente “primo” in ordine di tempo. Il sostantivo bhāga significa “parte”, “porzione”. Nell’insieme, il composto indica l’omaggio che sta nella parte introduttiva, quindi l’omaggio preliminare della pūjā.
karomase è l’imperativo (nella terza persona plurale, corrispondente alla prima in italiano) del verbo karoti (fare, compiere) stessa radice di kamma (sanscrito karman).
[namo tassa] bhagavato arahato
sammāsambuddhassa [3x]
Omaggio al Bhagavant, all’Arahant, al
Perfettamente Risvegliato [3 volte]
namo è la prima vibhatti singolare (nominativo), del neutro nama(s) connesso al verbo namati (piegare, inchinare) e al verbo namassati (onorare, omaggiare); si può tradurre come “omaggio”, “reverenza” o “onore”.
tassa è un pronome/aggettivo dimostrativo in quarta vibhatti singolare e concordante con i termini che seguono. Si può tradurre con “a lui” o lasciarlo non tradotto, considerando l’uso diffuso in pāli dei pronomi/aggettivi dimostrativi prima di un nome o perfino prima di un pronome personale (per es. so ahaṃ, letteralmente “questo io”, da tradurre semplicemente con “io”.
bhagavato è la quarta vibhatti singolare (dativo) di bhagavant – “colui che possiede fortuna o ricchezze” o “colui che ha distrutto [le contaminazioni]” o “colui che si è liberato dal divenire [nel saṃsāra]”.
arahato è la quarta vibhatti (dativo) di arahant o arhat. Deriva dal verbo arahati e letteralmente significa “degno”. Spiegato anche con un riferimento a un termine apparentemente simile, ārāka (lontano, alla larga da, distante): un arahant è un praticante per cui i dhamma nocivi (akusala), cause di sofferenza (dukkha), sono ormai lontani. Indica chiunque abbia raggiuto la liberazione ultima, incluso il Buddha.
Anche sammāsambuddhassa è una quarta vibhatti (dativo) singolare. Il composto è basato sul participio passato buddha (del verbo bujjhati: “svegliarsi” ma anche “capire, comprendere, sapere”). Significa “perfettamente/bene/appropriatamente/nel modo giusto (sammā) completamente (saṃ) risvegliato (buddha)”. Per “risvegliato” si intende risvegliato alla realtà così com’è, che conosce, comprende la realtà così com’è. Un sammāsambuddha non è solo un arahant, un liberato, ma è un tathāgata, ovvero un buddha che mette in moto la ruota del Dhamma. Il Buddha Siddhattha Gotama è il sammāsambuddha o tathāgata di questa era.